«Guardo ai due Stati, guardo a uno Stato. Mi piace quello che piace a entrambe le parti». Donald Trump riceve a Washington il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, e in una sola frase rottama decenni di politica americana sul Medio Oriente. La soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, non è più la priorità per l’amministrazione americana. Una decisione comunicata con leggerezza, come se tutto dipendesse dalla sensibilità temporanea del Presidente: «Posso vivere con entrambe le soluzioni», ha affermato Trump. Ma la sua posizione apre scenari nuovi, dagli esiti imprevedibili.
Amicizia e alleanza – L’incontro di ieri, 15 febbraio, il primo con Netanyahu era molto atteso. In campagna elettorale Trump si era schierato apertamente con Israele. Ma nei primi giorni da Presidente aveva tenuto un atteggiamento ambiguo, culminato nella gaffe del messaggio per la Giornata della memoria (27 gennaio) in cui non compariva la parola “Jew” (“ebreo”). L’arrivo dei due leader in sala stampa, al termine del vertice, ha dissipato ogni dubbio: larghi sorrisi e sguardi di intesa, con Trump che annuncia «l’onore di accogliere il mio amico Primo Ministro Benyamin Netanyahu». Un rapporto personale che riflette la grande fiducia tra i Paesi. «Apprezzo profondamente la tua amicizia», risponde Netanyahu: «Lo Stato di Israele non ha alleato migliore degli Stati Uniti. E ti voglio assicurare che gli Stati Uniti non hanno alleato migliore di Israele». Oltre ai rapporti tra lo stato ebraico e Palestina, Trump e Netanyahu hanno discusso anche di Iran, esprimendo piena sintonia. L’accordo stretto da Obama con la dittatura degli Ayatollah è per Trump «uno dei peggiori che io abbia mai visto». Il Presidente americano si è impegnato a fare di tutto perché l’Iran non rappresenti una minaccia nucleare per Israele.
Alture del Golan, insediamenti e Gerusalemme capitale – L’incontro ha già prodotto i primi effetti. Nella notte americana, Netanyahu ha chiesto formalmente al Presidente Trump di riconoscere la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Il territorio a nord dello Stato di Israele appartiene formalmente alla Siria, ma Israele lo ha occupato nel 1967 e ne ha dichiarato l’annessione – non riconosciuta dalla comunità internazionale – nel 1981. Il controllo del Golan è strategico perché le Alture permettono di dominare tutta la regione tra Siria e Israele. Un luogo soprannominato anche “castello d’acqua”, perché ospita le riserve idriche più importanti della zona.
Nella conferenza stampa, si è accennato anche ad altri due fronti: Trump ha invitato gli israeliani a «fermarsi per un po’ con gli insediamenti», mentre rispetto allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme ha mostrato speranza: «Mi piacerebbe molto, seguiamo la possibilità con attenzione. E vedremo cosa succede». Anche la città di Gerusalemme, formalmente divisa tra israeliani e palestinesi, è di fatto sotto il controllo dello Stato ebraico dal 1967, quando gli israeliani occuparono la zona palestinese di Gerusalemme Est.
Polemiche per il nuovo ambasciatore – Le reazioni palestinesi al colloqui Trump-Netanyahu esprimono agitazione. Il numero due dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), Saeb Erekat, ha dichiarato che le parole di Trump sono un tentativo di «seppellire la soluzione dei due Stati e di eliminare quello della Palestina». Il Presidente palestinese Abu Mazen, invece, ha scritto in un comunicato che Israele dovrebbe «rispondere alla richiesta del presidente Trump di fermare tutte le attività di insediamento». Intanto oggi, 16 febbraio, la Commissione affari esteri del Senato americano discute la nomina del nuovo ambasciatore americano in Israele, e il dibattito si annuncia rovente.
David Friedman, l’uomo scelto da Trump, sostiene pubblicamente gli insediamenti ed è contrario al riconoscimento dello Stato di Palestina. Ieri cinque ex ambasciatori americani in Israele hanno scritto alla Commissione, sostenendo che Friedman sarebbe “inadatto al compito” per le sue posizioni “estremiste e radicali”. E tra i membri repubblicani della Commissione, i’influente Paul Ryan, portavoce del partito alla Camera, avrebbe espresso dei dubbi. La nomina rimane a rischio.