In Tunisia, il profumo di gelsomini, che aveva dato il nome alla primavera rivoluzionaria del 2010, non si sente più. Torna l’odore acre dei gas lacrimogeni, sparati dalla polizia per disperdere le proteste della folla contro l’uccisione di Chokri Belaid, avvenuta il 6 febbraio.

La vittima – leader laico del Partito dei Patrioti Democratici, che si oppone agli islamisti di Ennahda al governo – lo ripeteva da tempo: la giovane democrazia tunisina, nata dalla rivoluzione, è in pericolo a causa della stessa coalizione che la guida, troppo vicina agli estremisti islamici.

L’uccisione di Belaid ha riportato il Paese nel caos e in una gravissima crisi istituzionale. I partiti di opposizione hanno subito minacciato le dimissioni di massa dall’Assemblea Costituente e incolpato il governo di essere complice nell’omicidio. Il premier tunisino Hamadi Jebali è pronto a sciogliere il governo e a formarne uno tecnico, per traghettare il Paese fino alle prossime elezioni. Il primo ministro avrebbe già incassato l’appoggio di uno dei partiti di maggioranza, Ettakatol, ma non quello degli appartenenti al suo stesso partito, Ennahda.

La decisione di Jebali ha, di fatto, spaccato il movimento islamista, che accusa il primo ministro di non essere stato consultato. Un dissenso spiegato da Abdelhamid Jelassi, un esponente del partito considerato molto vicino al leader Rached Gannouchi: «La Tunisia non ha bisogno di un “governo di competenze”, ma di un esecutivo politico». Che l’annuncio di Jebali avesse colto di sorpresa Ennahda lo si era capito la sera stessa dell’uccisione, quando i massimi dirigenti si riunirono d’urgenza, a tarda ora, nella sede del partito.

Maria Chiara Furlò