«Ci sono due linee guida da seguire per comprendere la vittoria di Erdogan. La prima è la fiducia che l’elettorato conservatore gli ha accordato, ritenendolo capace di imporsi sul piano nazionale e internazionale. La seconda è il fatto che Erdogan, tramite continui richiami alla bandiera, è risultato coerente e saldamente attaccato alla retorica nazionalista». La docente universitaria Valeria Giannotta si occupa di Turchia da anni e dirige l’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale (CeSPI). Ha accettato di spiegare alla Sestina, ora che le urne hanno dato una nuova investitura all’anziano Sultano, i motivi della persistenza al potere di un uomo con forti tendenze autoritarie e che solo a parole sembra rifarsi alla vecchia tradizione laica kemalista che pure è stata per decenni il segno distinitivo della Turchia moderna.

Quanto è importante il tema del nazionalismo per i cittadini turchi?
«Il nazionalismo fa parte del Dna di questo Paese. Agli occhi di molti cittadini Erdogan è stato in grado di sintetizzare la grandezza della Nazione e la volontà di indipendenza della Turchia da qualsiasi tipo di interferenza occidentale o di altri poteri».

Quali sono state le critiche mosse da Erdogan a Kilicdaroglu?
«Il fatto che al primo turno il partito filo-curdo Hdp (Partito Democratico dei Popoli) abbia deciso di sostenere Kilicdaroglu ha permesso a Erdogan di avere gioco facile nell’accusare quest’ultimo di vicinanza al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), riconosciuto come un’organizzazione terroristica».

Cosa ha determinato la sconfitta di Kilicdaroglu?
«Molti elettori non lo hanno ritenuto credibile, preferendo la stabilità garantita da Recep Tayyip Erdogan alla novità rappresentata da Kemal Kilicdaroglu. Sul risultato finale ha pesato l’incapacità di Kilicdaroglu di scrollare dal suo partito il cliché di essere una forza elitaria e incapace di parlare alle masse».

Quali tensioni ci sono state all’interno della coalizione di sei partiti che ha sostenuto Kilicdaroglu?
«Per strategia elettorale e per convenienza politica, il leader del Partito popolare repubblicano (Chp) Kemal Kilicdaroglu ha adottato una posizione molto dura sul tema dell’immigrazione, promettendo di mandare fuori dal Paese i rifugiati siriani. Questo, tuttavia, ha creato una sorta di crisi di identità nella sua coalizione elettorale, dove convivono istanze differenti: da quelle moderate a quelle nazionaliste o conservatrici».

Quale elemento di novità emerge da queste elezioni?
«Kilicdaroglu ha ottenuto un buon risultato elettorale nelle zone filo-curde nel sud est anatolico. L’Elettorato curdo non è un elettorato monolitico: quando parliamo dei curdi, è importante riconoscere che ci sono delle differenze. Precisato ciò, il fatto che le zone popolate a maggioranza curda abbiano votato Kilicdaroglu rappresenta una novità nel tradizionale gioco politico della Turchia».

Quanto è forte il controllo del governo sui media?
«Il controllo si sente, anche se non siamo di fronte a un altro caso Iran. C’è la consapevolezza che Erdogan controlli un po’ tutto. I leader dell’opposizione sanno che possono anche essere denunciati, non è una situazione ideale. A questo si accompagna il fatto che la Commissione europea ha registrato in Turchia un arretramento rispetto ai diritti fondamentali e agli standard europei».

Il fatto che in Turchia si voti è sufficiente per poter parlare di democrazia?
«La Turchia non ha mai avuto un’esperienza democratica genuina. Sottolineato ciò, è importante imparare a guardare la Turchia con le lenti dei turchi, e non con le lenti che usiamo noi occidentali. C’è una parte della società che ritiene che andare alle urne e vincere sia segno di democrazia. Se guardiamo alla regione, inoltre, la Turchia è il Paese più democratico e stabile in un contesto caratterizzato da guerre e instabilità».

Cosa potrebbe favorire la democrazia in Turchia?
«Io credo che un processo democratico in Turchia possa essere agevolato soltanto dalla vicinanza con l’Occidente e con l’Unione europea. La Turchia è candidata dal 1999 e ha iniziato i negoziati nel 2005. Era sicuramente un Paese diverso e lo stesso Erdogan piaceva molto di più all’Occidente. Poi il processo negoziale si è arenato».