Dopo Ankara, Diyarbakir. In Turchia la tensione non accenna ad attenuarsi. All’indomani dell’autobomba esplosa al passaggio di un convoglio bellico nella capitale turca che ha ucciso 28 persone e ne ha ferite altre 61, nella mattinata di giovedì 18 febbraio è di nuovo un automezzo militare a finire al centro di un attentato. Siamo nel Kurdistan turco, zona sud-orientale del Paese, lungo la strada che collega il capoluogo Diyarbakir al distretto di Lice. Sono da poco passate le 8.40 (ora italiana) quando una mina colpisce in pieno un mezzo blindato di passaggio. Almeno sette le perdite tra i militari.

La strada tra Diyarbakir e Lice, teatro dell'attentato. Siamo a 300 km sia dal confine iraqeno che da quello siriano (Kobane)

La strada tra Diyarbakir e Lice, teatro dell’attentato. Siamo a 300 km sia dal confine iraqeno che da quello siriano (Kobane)

Immediata l’accusa del governo: «I due attentati, collegati fra loro, sono stati compiuti dal Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) in collaborazione con l’Unità di protezione popolare (Ypg)», si è affrettato a dichiarare il primo ministro Ahmet Davutoglu che ha parlato di «70 obiettivi già colpiti» nell’Iraq del nord nel corso dei bombardamenti contro il Pkk iniziati appena tre ore dopo l’esplosione di Ankara. Accuse subito smentite dai curdo-siriani dell’Ypg che hanno messo in guardia il governo su eventuali operazioni di terra oltreconfine. Brusca la reazione di Ankara: «Continueremo a colpire il braccio armato del Partito dell’unione democratica (Pyd), pedina fondamentale del regime di Assad».

Intanto è stato reso noto il profilo dell’attentatore suicida di Ankara, rintracciato grazie alle impronte digitali: per Ankara si tratterebbe di un 24enne siriano, Saleh Nejar, entrato nel Paese a luglio come rifugiato, che secondo fonti governative sarebbe un affiliato proprio dell’Ypg. L’auto utilizzata, una Volkswagen, sarebbe stata affittata una settimana fa a Bursa e mai restituita. Nove i fermati, con l’accusa di essere suoi complici. «Dimostreremo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu le prove del coinvolgimento dei curdi – ha detto il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu – ed è nostro diritto attenderci una posizione comune contro il terrorismo». Dopo gli attacchi di Istanbul del 12 gennaio, attribuiti all’Isis, e il gigantesco attentato ad Ankara che nell’ottobre scorso seminò il panico durante una marcia pacifista, la Turchia torna a fare i conti con il terrore. E con i suoi fantasmi.

Emiliano Mariotti