Bergamo, 24 maggio, Teatro Sociale. Oleksandra Romantsova, direttrice del Centro per le libertà civili di Kiev premio Nobel per la Pace 2022 con la sua associazione, si prepara per il suo discorso all’evento Culture for Peace, organizzato nell’ambito delle mamifestazioni per Bergamo e Brescia capitali della cultura 2023. Il pomeriggio lombardo è freddo, piovoso e i tuoni che risuonano all’interno del teatro ricordano i bombardamenti a cui il popolo ucraino sta facendo l’abitudine da 15 mesi a questa parte. Gli occhi blu di Sasha, come la chiamano i suoi amici e familiari trasmettono la determinazione di una donna che sta lottando per una causa di rilevanza mondiale.
Cosa è il Center for Civil Liberties?
Il CCL ha avuto origine nel 2007. Lo scopo principale fin dall’inizio è stato il mantenimento degli standard dei diritti umani dei cittadini ucraini. Dal 2013, con lo scoppio dei disordini legati a Euromaidan, ha avviato una linea telefonica che fornisce supporto gratuito di avvocati specializzati a coloro che vengono arrestati. Io ho iniziato come volontaria per questa linea telefonica. Di giorno lavoravo in banca e di notte rispondevo alle chiamate di chi aveva necessità di aiuto legale. Grazie a questa iniziativa abbiamo iniziato ad avere l’attenzione del Tribunale Penale Internazionale, per le informazioni di cui eravamo in possesso di cittadini ingiustamente arrestati oppure brutalmente picchiati o uccisi. Da quel momento in poi ho abbandonato il mio lavoro per dedicarmi all’associazione a tempo pieno. Al momento le nostre attenzioni sono rivolte sopratutto ai crimini che stanno avvenendo in Crimea: rapimento, tortura, detenzione illegale.
Con il CCL, quali sono le violazioni dei diritti umani che sta attualmente combattendo?
Principalmente il rapimento dei cittadini. Poi la detenzione illegale e la tortura, ma anche il bombardamento di scuole, ospedali e chiese. Quello che abbiamo visto dall’invasione dell’Ucraina in poi (24 febbraio 2022) è solo un piccolo campione di quello che la Russia ha sempre fatto dal 2014 e che accade ogni giorno in Crimea e in Donbass. Parliamo di migliaia di cittadini. E di strutture detentive illegali dove nemmeno la Croce Rossa ha la possibilità di accedere.
Nel vostro report “Il costo umano dell’invasione russa” parla della deportazione di migliaia di bambini e di civili: qual è la situazione al momento?
Nel momento in cui l’esercito russo ha invaso il nord dell’Ucraina, ha cominciato a strappare i cittadini dalle loro abitazioni e dalle loro regioni. Esistono migliaia di casi noti ma ci sono altre migliaia di situazioni di cui non si è a conoscenza perché chi abita lì non ha modo di appellarsi alle autorità. Ma cosa significa essere trascinati nelle prigioni in Russia? Significa non avere assistenza medica, non avere la possibilità di essere in contatto con la famiglia e nemmeno con un avvocato difensore. C’è un vuoto di informazioni e non abbiamo modo di sapere in che condizioni si trovino queste persone. Inoltre il problema viene aggravato dal fatto che le leggi umanitarie internazionali non considerano questi atti come crimini di guerra. E poi c’è il problema dei bambini: i russi attaccano e prendono possesso di proposito degli orfanotrofi, portando migliaia di giovani in Russia, spesso talmente piccoli da non ricordarsi della famiglia e delle loro origini, così che diventino dei “nuovi” cittadini russi. Fonti dicono che siano stati evacuati dall’Ucraina più di 300mila bambini nel corso degli anni. Ed è un metodo non nuovo. Prima dell’Ucraina era successo in Mali, in Georgia, in Cecenia.
Dopo l’incontro con il Papa, il presidente Zelensky ha evidenziato l’impossibilità di una mediazione con il governo russo: se il ripristino dell’integrità territoriale fosse una delle condizioni, la pace sarebbe possibile?
Prima di tutto bisogna capire che per la Federazione russa è impossibile smettere con questi atti di aggressione. Per trattare la pace c’è bisogno che prima di tutto vengano restitutiti all’Ucraina i suoi territori e anche le persone che sono state deportate. Soprattutto sui bambini, abbiamo necessità che venga garantito che verranno riconsegnati e non più rapiti. Per noi la pace è così importante perché non riguarda soltanto il cessare il fuoco, che certamente è una condizione indispensabile, ma perché per l’Ucraina smettere di difendersi significherebbe la fine. Non abbiamo però illusioni al momento, l’unica scelta che abbiamo per ora è quella di difenderci dall’aggressione russa. Il popolo ucraino è compatto in questa difesa, perché pochi di noi sono militari di professione. Circa i due terzi delle truppe sono normali cittadini, amici e parenti che combattono al fronte, e questo aumenta il nostro senso di difesa della nazione. Quindi prima ci riportino i nostri bambini, poi smettano di bombardarci e ci restituiscano il controllo delle centrali nucleari. Con queste condizioni si potrà iniziare a negoziare la pace, altrimenti saranno solo parole.
La posizione dei paesi occidentali riguardo un possibile trattato di pace e la conseguente fine delle ostilità è molto differente da nazione a nazione. Quali sono gli ingredienti per unificare le opinioni dei diversi governi?
Prima di tutto c’è bisogno che il popolo ucraino venga difeso. Secondo, il rilascio dei cittadini deportati. Terzo: la giustizia. E non solo per l’Ucraina, ma per tutti i paesi che sono state vittime dell’aggressività della Russia adesso e anche dell’Unione Sovietica prima, che non ha ricevuto accuse dalle autorità internazionali nel corso degli anni. Abbiamo documentato più di 40mila crimini di guerra e serve che ognuna dell vittime abbia la giustizia che si merita.