«Vogliamo proteggere le persone che da otto anni subiscono un genocidio da parte del regime di Kiyv e per questo ci adopereremo per smilitarizzare e denazificare l’Ucraina». Con queste parole, pronunciate da Vladimir Putin, la notte del 23 marzo iniziava l’invasione russa dell’Ucraina. Poco dopo, durante le prime ore del 24, i carri armati russi con la Z dipinta sulle fiancate passavano le frontiere e i missili del Cremlino iniziavano a cadere su aeroporti e obiettivi militari.
A Occidente l’Ucraina resiste – Un mese dopo la guerra infuria ancora. Le forze armate di Kiyv, ispirate dalla leadership energica del presidente Volodimyr Zelensky, continuano a resistere. Le forze armate russe non sono state in grado di portare avanti l’operazione lampo che forse si aspettavano e hanno subito perdite ingenti – circa 15mila secondo fonti ucraine, 10mila secondo il ministero della Difesa russo. La resistenza non è però riuscita a impedire che gli invasori occupassero un’area che per estensione corrisponde circa al Regno Unito.
La capitale, Kiyv, non è ancora completamente circondata e qui si concentrano le forze armate ucraine. La pioggia di missili non ha piegato le difese, anche se le sirene dei bombardamenti risuonano ormai senza soluzione di continuità. Le città dell’ovest, Leopoli e Odessa in primis, sono state oggetto di bombardamenti sporadici ma ad oggi le forze armate russe sono ancora lontane e uno sbarco via mare sarebbe – come fanno sapere anche gli ufficiali ucraini – «un suicidio» per i russi.
La guerra orientale – È ad est del Dnipro che si combatte più aspramente. Qui le forze armate russe hanno stabilito il pieno controllo del Mar d’Azov e hanno cinto d’assedio il porto di Mariupol. La situazione umanitaria in città è drammatica e i russi non distinguono più tra obiettivi militari e civili. Secondo le accuse di Mosca i difensori – tra cui combattono le forze d’èlite dei marines ucraini e il battaglione neonazista Azov – impediscono ai cittadini di uscire dai corridoi umanitari. I bombardamenti russi hanno ridotto la città a un cumulo di macerie, senza risparmiare nemmeno i siti culturali come il teatro dell’opera.
A sud i russi reclamano il controllo dell’intero oblast di Kherson e di parte di quello di Zaporižžja – compresa la principale centrale nucleare del Paese, dove il 3 marzo forze ucraine e russe si sono scontrate, innescando la paura di un disastro nucleare. Anche buona parte delle regioni del Donbass è oggi sotto il controllo di Mosca, che annuncia di aver conquistato il cruciale snodo di Izyum, anche se gli ucraini continuano a resistere nella piazzaforte di Kharkiv. Di fatto è in quest’area del Paese che la Russia ha ottenuto gli unici reali successi, precludendo all’Ucraina l’accesso al mare d’Azov – ormai un lago russo – con la presumibile caduta imminente della città di Mariupol.
Reazioni internazionali – Dal giorno successivo all’invasione le potenze occidentali si sono compattamente schierate contro l’aggressione di Putin. Dopo cinque pacchetti di sanzioni, la Federazione russa ha visto decine di aziende occidentali – da Apple a McDonald’s – lasciare il mercato del Paese, mentre sono più di 250 le personalità direttamente sanzionate con congelamento di beni e conti correnti. L’esclusione dal sistema di pagamenti Swift, e successivamente da quello Euroclear, ha contribuito al deprezzamento del rublo, arrivato a valere appena 0,7 centesimi di dollaro (prima di ritracciare a 1 centesimo).
Accanto alle sanzioni, che tuttavia non hanno toccato ancora il settore energetico da cui gli Europei sono fortemente dipendenti, le nazioni occidentali hanno deciso di supportare il governo di Zelensky senza intervenire direttamente. Lanciamissili antiaerei e anticarro, fucili e munizioni sono stati inviati ai difensori dell’Ucraina in numeri esorbitanti (oggi nel Paese c’è un lanciamissili a spalle ogni 30 abitanti circa), ma gli appelli del presidente ad istituire la no fly zone – abbattendo dunque aerei e missili russi – sono caduti nel vuoto
Le minacce – In caso di intervento militare occidentale Putin e il suo ministro degli Esteri Lavrov hanno promesso di reagire con «conseguenze mai viste prima» – alludendo alla possibilità di un confronto nucleare con la NATO. A premere per un coinvolgimento diretto dell’alleanza atlantica restano oggi solo le nazioni dell’Europa orientale come Polonia e Lituania, mentre altri Paesi come Italia e Germania sposano di buon grado la linea “non cinetica” promossa dagli Stati Uniti.
La Repubblica popolare cinese si è rifiutata di condannare le azioni della Federazione russa, accusando gli Usa di di aver creato condizioni tali da costringere Mosca a intervenire. A poco è servito il meeting, tenutosi a Roma, tra Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden e Yang Jiechi, capo della diplomazia del Partito comunista Cinese. Senza effetto anche le minacce di «conseguenze gravissime» da parte della Casa Bianca in caso Pechino avesse continuato a supportare la Russia.
Ma il Dragone non è solo nel tendere la mano al Cremlino. India, Brasile, Pakistan e Arabia Saudita (che insieme alla Cina contano 3,4 miliardi di abitanti), non hanno varato sanzioni e anzi promettono di potenziare la cooperazione nel settore economico.
Situazione umanitaria – Secondo l’UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, già due milioni e mezzo di persone sono state costretti a fuggire dalle bombe russe. Due milioni si trovano oggi in sistemazioni di fortuna in Romania e Polonia, dove sono arrivati in macchina o addirittura a piedi. L’Italia ha fatto la sua parte accogliendo, per il momento, 50mila persone, anche se il piano prevede di dare asilo ad almeno 95mila cittadini ucraini.
Circa 300mila gli ucraini che hanno invece riparato in Russia, dove conducono i corridoi umanitari aperti dalle forze russe – non è chiaro se e come questi potranno tornare a casa. A fuggire sono soprattutto donne, anziani e bambini, dato che la legge marziale dichiarata da Kiev costringe gli uomini a restare per imbracciare le armi contro gli occupanti.
Energia e Borse – La guerra ha determinato un aumento vertiginoso nel prezzo di alcune materie prime, a partire dalle granaglie. Ucraina e Russia sono infatti trai maggiori produttori a livello mondiale, responsabili del 30% dell’export alimentare di cereali e grano. Secondo i dati dell’International Grain Council tutti gli indici legati ai beni agricoli, con l’eccezione del riso, hanno visto un rialzo consistente su base annuale: grano (+60%), mais (+45%), soia (+28%), orzo (+58%).
L’energia, nonostante ancora esente da sanzioni dirette, è andata incontro a forti rialzi. I prezzi del petrolio toccano i 120 dollari al barile (dopo un massimo di 131 durante la seconda settimana di marzo), mentre il gas naturale è arrivato al record storico di 100 dollari /MWh. A determinare i rialzi le tensioni internazionali, la difficoltà della Russia di compiere pagamenti e l’indisponibilità di Paesi come l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione.
Per le borse è un periodo di incertezza. La piazza di Mosca ha riaperto solo il 21 marzo, dopo ben dieci giorni di chiusura continuativa. Le borse occidentali sono in timida ripresa dopo il forte ritracciamento delle prime due settimane di conflitto.