bandiera ue

La sede del Parlamento europeo a Strasburgo

Un sogno per alcuni, una gabbia per altri. Un miraggio di soldi, agevolazioni e diritti, per alcuni. Un incubo di parametri, obblighi e rigidità per altri. In un momento molto difficile della sua storia, alla vigilia di quelle che potrebbero essere le elezioni più anti-europeiste della sua storia, l’Unione europea continua in realtà ad essere l’agognata meta ultima di non pochi Paesi. Che desiderano veder brillare la propria stella sulla bandiera comunitaria. Mentre chi è dentro a questo club dà sempre più segnali di insofferenza e medita di uscirne, stretto da vincoli di bilancio e continue cessioni di sovranità.

In assenza di clamorose defezioni, in un futuro neanche troppo lontano, l’Unione potrebbe allargarsi ancora e diventare la casa comune per 36 Paesi, dal momento che sono otto gli Stati ai quali è stata offerta la prospettiva di adesione: Turchia, Serbia, Macedonia, Islanda, Montenegro, Bosnia, Albania e Kosovo. I primi cinque della lista hanno già ottenuto lo status ufficiale di Paesi candidati e hanno avviato già i negoziati: un passo in più sulla strada che porta all’adesione vera e propria. Ma bussano alle porte dell’Unione – anche se da più lontano- pure Georgia e Moldavia, che hanno firmato l’accordo di associazione, primo passo formale.  Ed è stato poi il richiamo della comunità unica a portare in strada per giorni migliaia di persone in Ucraina: Europa lo slogan scandito a gran voce nelle piazze. Europa, che scalda i cuori di chi ne vorrebbe far parte. Europa che invece alimenta le tensioni in non pochi Paesi che già sono al suo interno.

Attaccata da alcuni, blandita da altri. Ancora. Tanto. Soldi, influenza e tutele i motivi che rendono ancora attrattiva l’Ue. Gli stessi anche di una decina di anni fa. Dal lato economico continua a far gola l’apertura al mercato del vecchio continente, specie per quelle economie dinamiche ma con limitati sbocchi interni. A livello politico, invece, il desiderio è di ancorarsi ai principi democratici che l’Europa promuove, un desiderio avvertito soprattutto dai Paesi usciti da regimi dittatoriali. Entrare nel club dell’Europa unita consente di avvalersi del potere d’influenza che l’Ue esercita, come attore unico, all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. Una sorta di parente influente a cui ricorrere, specie per i Paesi più piccoli, come ad esempio le repubbliche balcaniche, che singolarmente avrebbero un peso negoziale molto più scarso. Ma non solo: anche se l’Ue fa del liberismo e della concorrenza due suoi pilastri fondanti, in realtà rispetto a chi non ne fa parte adotta politiche protezioniste, come risulta chiaro ad esempio nell’ambito della politica agricola comune, una delle politiche comunitarie più importanti e pesanti sul bilancio dell’Ue. Ancora una volta, ritorna la metafora dell’Europa come genitore che tutela e protegge i piccoli. Alcuni di questi vantaggi, per esempio l’accesso al mercato comune europeo, possono essere ottenuti anche solo entrando nell’orbita dell’Ue. Per vendere i prodotti al suo interno, difatti, è necessario adeguarsi agli standard vigenti. Altri vantaggi, invece, come i famosi – e spesso mal sfruttati – Fondi strutturali europei per le aree più svantaggiate sono a beneficio esclusivo di chi è ufficialmente membro dell’Ue.

Ma se tutto funziona così bene, perché c’è anche chi se ne vuole andare? L’esempio della Gran Bretagna, con la proposta del premier Cameron di indire un referendum che confermi o meno la permanenza della Gb in Ue entro il 2017, sembra la classica eccezione che conferma la regola. In realtà, al di là delle motivazioni storiche e dello scarso europeismo dei britannici, il Continente – come lo chiamano loro – presenta sicuramente anche tantissimi problemi. Una politica estera frammentata, la ripartizione delle ingenti risorse previste dal bilancio comunitario, il peso sempre più influente della Germania, gli aiuti dei Paesi più grandi ed economicamente avanzati a quelli più svantaggiati e in generale la natura meramente economica dell’Unione che limita il potere di intervento dei singoli stati in casi eccezionali, tra i quali la crisi iniziata nel 2007 e di cui si intravede la fine è l’esempio più lampante.

Eppure, nonostante la Merkel, lo spread e i default, l’Europa, per chi spera di poterne far parte, è ancora un sogno da realizzare. Due, in particolare, sono i Paesi che simboleggiano questo desiderio: da un lato la Turchia, la cui richiesta di adesione risale al 1987 ma che solo dal 2005 è divenuto ufficialmente candidato all’ingresso. Dall’altro l’Ucraina, un Paese sospeso tra il modello europeo, sogno dei manifestanti scesi in piazza da metà novembre dell’anno scorso, e la Russia, vicino scomodo ma per molti versi – vedi forniture di gas – insostituibile.

Per molti anni la Turchia, una potenza che si candida a divenire guida per tutti i paesi islamici del Mediterraneo, ha bussato alle porte dell’Europa, rimasta però a guardare per diversi motivi: dai possibili problemi demografici – con la paventata libera circolazione di milioni di giovani turchi – a più esili motivazioni ideologiche – un paese islamico, culturalmente poco europeo. L’attesa ha decisamente raffreddato gli animi e la buona disposizione dei turchi verso il club Ue, club del quale, tuttavia, i governi turchi hanno iniziato progressivamente a recepire indicazioni e standard. Il risultato è che la Turchia, oggi, nonostante alcuni problemi lampanti come l’occupazione di Cipro e la tutela delle minoranze, ha fatto passi da gigante sulla strada che porta alla completa adesione. Ma il continuo temporeggiare delle autorità europee rischia di far aumentare il nervosismo del governo turco, che in diverse occasioni, come durante le proteste di piazza Taksim dello scorso giugno, non ha mancato di mostrare una pericolosa deriva autoritaria e repressiva.

Diverso, e per certi versi agli estremi, è il discorso per l’Ucraina. Qui, dopo il cambio di rotta del presidente Viktor Yanukovich, che non ha firmato il trattato di libera associazione con l’Ue e si è rivolto nuovamente verso la Russia, il sentimento europeistico della popolazione e dell’opposizione ha preso distintamente forma in piazza dell’Indipendenza a Kiev. Lì dove nel 2004 si era celebrata la rivoluzione arancione e filo occidentale dell’ex premier Yulia Tymoshenko, ora in carcere, centinaia di migliaia di persone da metà novembre hanno manifestato chiedendo le dimissioni di Yanukovich e la ripresa del dialogo con l’Ue.

Insomma, ripudiata, combattuta e additata come responsabile della crisi da molti Paesi membri, all’Unione Europea non resta che affacciarsi alla finestra per tornare a sorridere e a credere in quello che rappresenta dal 1957 ad oggi.

Francesco Giambertone
Francesco Loiacono