Quasi al termine della conta dei risultati, Hillary Clinton e Donald Trump sono saliti sui rispettivi palchi per il discorso del post Super Tuesday. La candidata democratica e quello repubblicano hanno scelto entrambi di parlare dalla Florida, il teatro della prossima sfida elettorale del 15 marzo, ed entrambi hanno usato toni e parole da vera campagna presidenziale. Già, perché alla fine di questo Super martedì sembrano essere Clinton e Trump a doversi scontrare per la guida degli Stati Uniti d’America il prossimo novembre 2016. Gli Stati del sud del Paese hanno aiutato, come previsto, la candidata democratica, le spaccature del partito repubblicano hanno forse dato una mano all’imprenditore fuori dalle righe, Donald Trump.
Gli altri sfidanti? Il giovane prediletto dei repubblicani Marco Rubio ha vinto di poco in Minnesota, Ted Cruz non ha sorpreso nessuno conquistando il Texas e aggiungendoci l’Oklahoma, ma al momento è quello che si avvicina di più a contrastare il magnate newyorkese. Fra i democratici, Bernie Sanders è arrivato primo in Colorado e in Minnesota, ha strappato a Hillary l’Oklahoma e si è commosso per la vittoria nel “suo” Vermont. Una buona performance ma non sufficiente a far preoccupare Clinton. Secondo Luigi Zingales, economista e professore alla University of Chicago Booth School of Businesses, ci sono poche e quasi impossibili alternative alla battaglia finale Clinton contro Trump, Trump contro Clinton.
L’Oscar di Donald Trump e i repubblicani spaccati
“Questo martedì sera mi fa pensare al 28 marzo 1994 quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni in Italia – riflette il professor Luigi Zingales – e solo chi ha esperienza di quello che è stato Berlusconi può capire il successo di Trump”. Secondo Zingales, l’ex Primo Ministro italiano e il candidato repubblicano sono due tipi molto simili: uomini che hanno una stima sconfinata in loro stessi, con una grande capacità di sentire il polso dell’elettorato. Come Berlusconi, l’uomo più ricco d’Italia, si presentava come l’uomo medio e lavoratore, così Trump, che ha sempre vissuto nell’establishment, si propone come colui che l’establishment lo abbatterà.
Fatto sta che Donald Trump, il “businessman”, questo martedì ha ottenuto numeri straordinari. “È l’unico repubblicano dai tempi di Bush padre -sottolinea Zingales – che è riuscito a vincere sia nel liberal Massachussetts che in Georgia: Stati molto diversi per tradizione politica e composizione etnica. Gli statunitensi arrabbiati perché quando entrano nel mondo del lavoro guadagnano meno di quello che guadagnavano i loro padri 25 anni fa lo hanno votato senza dubbi”. Dopo otto anni di presidenza Obama, la frustrazione dell’americano medio, bianco, per aver perso il dominio della politica e il centro del mondo ha portato gli elettori repubblicani ad ascoltare gli occhi infervorati del tycoon.
Da Palm Beach, in Florida, il candidato repubblicano ha ringraziato i suoi elettori e risposto al discorso di Hillary Clinton: “È una politica che parla da molto tempo, ma noi col nostro motto – make America great again – prevarremo”. Sarà vero, ma non si può dimenticare che fra i repubblicani la nomina di Trump non è così scontata: se il newyorkese dovrà continuare a spartirsi i voti con Marco Rubio, Ted Cruz e John Kasich, sarà difficile che raggiunga il numero di 1.237 delegati necessari per conquistare la convention di luglio. Per questo, Trump fa appello all’unità. “Su alcuni siti – prosegue Luigi Zingales – si diceva che Mitt Romney vorrebbe entrare in campagna all’ultimo momento per rubare consensi a Trump. Ma questi sono wishful thinkings: desideri che si spera possano diventare realtà, ma solo desideri. Trump sta stravincendo nell’elettorato repubblicano e questa è la democrazia”.
Per Marco Rubio in effetti è stata una notte molto difficile, come ha ironizzato lo stesso Donald Trump: 38 delegati del Minnesota lo sosterranno alla convention, ma saranno le primarie del prossimo 15 marzo nella sua Florida a decidere il proseguimento della sua campagna elettorale. L’antitrump favorito è però Ted Cruz, un altro repubblicano odiato dall’establishment, che si è guadagnato un bel bottino in Texas. Nel suo discorso, prima si è congratulato con Trump, poi ha ricordato di averlo battuto non una ma due, anzi tre volte. In Iowa, Texas e Oklahoma (cui si è aggiunto dopo il risultato dell’Alaska). Come se fossero tante, confrontate con i dieci Stati dove Trump è arrivato primo. Ad ogni modo, Cruz sembra crederci e dice che solo lui può resistere e fermare Trump, poi cita una frase di John Kennedy.
Nella confusione del momento, l’attacco al rivale è diretto: “Non dobbiamo avere un presidente le cui parole fanno vergognare gli Stati Uniti ma uno che dia speranza – dice Cruz – e io farò tutto quello che Trump promette ma che non farà. Trump difenderà Wall Street mentre io farò un’aliquota giusta per tutti”. Il magnate repubblicano, secondo Cruz, si rifiuterebbe di pubblicare una registrazione del New York Times in cui afferma che non costruirà davvero il famoso muro al confine, pagato dal Messico. Uno dei temi che rientra più spesso nella lista delle cose da fare del repubblicano aggressivo.
Hillary Clinton fra Trump e Sanders
Nella notte del Super Tuesday, sul fronte democratico, Hillary Clinton non smentisce il suo spirito sognatore: “Dobbiamo rendere più forte questo Paese e instillare il rispetto per tutti. Dobbiamo eliminare le barriere”, ha esclamato nel suo discorso dalla Florida. Ma secondo il New York Times, per lei adesso inizia una campagna elettorale “sporca”. Il professor Zingales prova a chiarire: “Clinton è una persona malleabile, come e più del marito. Una sostenitrice di Bernie Sanders in Ohio ha detto che quando parla Clinton non si sa mai chi la ha pagata per quello che dice”. È finito il tempo delle concessioni a sinistra fatte per contrastare Sanders, ora si passerà ai compromessi per rubare elettori a Donald Trump. Quello che è certo è che la campagna di Trump è lontana dalla tradizione e rende difficile la battaglia per chi lo deve affrontare.
Il lavoro di Sanders per portare temi più di sinistra nel dibattito non può quindi dirsi concluso: “Insieme – ha gridato al microfono il senatore 74enne, dal Vermont – faremo un’economia che operi per tutti noi e non solo per coloro che sono al vertice. I nostri concittadini lavorano tantissimo, ma i redditi più alti vanno nelle mani dell’un per cento della popolazione”. Denunce, speranze, cambiamenti. Ma dopo questo martedì è difficile vedere qualche possibilità per Sanders di diventare il candidato alle presidenziali: Il senatore ha perso anche in Massachussetts e ha una presa molto bassa fra neri e ispanici. Per di più, è odiato dall’establishment democratico tanto e più di Trump in quello repubblicano.
“Se guardiamo al voto dei bianchi, Sanders avrebbe una chance di essere candidato democratico – spiega Luigi Zingales – ma i neri e le altre minoranze votano per Hillary Clinton. Anche le donne sopra i 50 anni la preferiscono. Le altre no. Il movimento femminista negli Usa è cambiato: quello degli anni 80 e 90, cui Clinton appartiene, cercava di rompere il glass ceiling, il tetto di vetro che rende difficile per le donne arrivare ai posti importanti della società, mentre le più giovani vedono le discriminazioni come un fenomeno più ampio e trovano che votare Clinton perché è donna sia altrettanto negativo che votare un uomo perché è un uomo”. Bernie Sanders, comunque, ha introdotto un vento di novità per due motivi. “Un segnale – dice Zingales – lo ha dato dal punto di vista del finanziamento: nessuno prima di lui aveva fatto la campagna elettorale senza i soldi dei grandi donatori. Poi, Sanders ha aperto la possibilità che in futuro ci siano candidati molto più di sinistra”.
Livia Liberatore