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Il graffito di Banksy “Sky”, realizzato nel 2005 sul Muro che divide Israele dai territori palestinesi

Sono due storie parallele, ma molto diverse. Il processo di pace in Medioriente e l’Unione Europea hanno una cosa in comune: la data di nascita. Era il 1993 quando Ytzhak Rabin e Yasser Arafat si stringevano la mano per la prima volta, nel cortile della Casa Bianca. Era il sigillo sugli accordi di Oslo, che dovevano portare una svolta nella questione palestinese. Ed era il 1993 quando entrava in vigore il Trattato di Maastricht e nasceva ufficialmente l’Unione Europea.

Le due storie tornano a intrecciarsi a vent’anni di distanza. Ora è infatti l’Unione Europea a dare il suo contributo per uno Stato palestinese “indipendente, democratico, contiguo e duraturo”. Lo fa con una direttiva pubblicata a luglio e che sarà operativa a partire dal primo gennaio 2014. Stabilisce che tutti gli organismi israeliani che operano al di fuori dai confini nazionali – in Cisgiordania o a Gerusalemme Est – non avranno diritto a premi e sovvenzioni Ue.

Da gennaio tutti i contratti tra i Paesi europei e Israele dovranno includere una clausola speciale: il riconoscimento che i territori oltre la Linea Verde (quella dell’armistizio in vigore dal 1949 al 1967, prima della Guerra dei sei giorni), non fanno parte dello Stato d’Israele. E quindi non possono rientrare nei contratto. La direttiva è vincolante per i 28 Stati membri e vieterà qualsiasi forma di finanziamento, borse di studio, cooperazione economica, premi per la ricerca e finanziamenti per enti e singoli individui.

Non è la prima volta che da Bruxelles arrivano dichiarazioni e risoluzioni per invitare le autorità israeliane a porre fine agli insediamenti a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania. Finora, malgrado le violazioni registrate dalle risoluzioni Onu, nessuna sanzione è stata mai applicata.

Intanto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha già mandato a dire che Israele “non accetterà nessun diktat esterno riguardo ai propri confini”. La soluzione del problema palestinese è ancora rinviata. A quando i complessi “nodi” regionali come la guerra civile siriana e il nucleare iraniano saranno stati sciolti.

Eppure qualcosa sta cambiando. È del 12 novembre la notizia, riportata dall’agenzia di stampa Nena News, che lo stesso Netanyahu ha ordinato al ministro per gli Alloggi Uri Ariel di riconsiderare il piano per 20 mila nuove case per coloni in Cisgiordania.

È difficile però tornare indietro. La Cisgiordania è stata già ridotta a un arcipelago di piccole isole urbane dalla “barriera di separazione”, un muro che ha di fatto coinciso con l’annessione di quasi il dieci per cento del territorio palestinese. Il 60 per cento di tutto il territorio palestinese rimane sotto il controllo completo di Israele. E sono già 350 mila i coloni israeliani che vivono nei 35 insediamenti della Cisgiordania, in impossibile convivenza con 180 mila palestinesi residenti.

In quella striscia di terra l’Unione Europea c’è già. Con progetti europei per edifici e infrastrutture utilizzati dalla popolazione palestinese. Il guaio è che questo tipo di strutture, che per Israele sono abusive, vengono sistematicamente demolite. E così la Ue è costretta a rimettere mano al portafoglio e, per esempio, ha già dovuto stanziare 30 milioni di euro per ricostruire alcune strutture amministrative e di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, che dovrebbero essere completate il prossimo anno.

L’Unione Europea, inoltre, continua a fornire finanziamenti per rafforzare le istituzioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, pagando lo stipendio alla maggior parte dei suoi funzionari, che costano circa 150 milioni di euro all’anno.

Se la nuova direttiva possa essere lo strumento per una svolta, solo il tempo potrà dirlo. L’ostacolo è il solito: l’unanime appoggio dei singoli Stati membri alle misure, che loro stessi sono chiamati ad applicare. Forse, la pace in Medio Oriente e la costruzione di uno Stato Palestinese libero e indipendente passano anche da qui.

Davide Gangale