«Il carcere deve includere escludendo, perché deve limitare la libertà della persona, ma allo stesso tempo aiutarla a reinserirsi nel contesto sociale». Lo dice Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate, durante un incontro con gli allievi del master di giornalismo “Walter Tobagi” nel polo universitario della Statale a Sesto san Giovanni. Sembra un paradosso, ma è quanto da anni cerca di fare la casa di reclusione milanese. «Non facciamo nulla di straordinario- continua il direttore- ci limitiamo ad applicare l’articolo 27 della nostra Costituzione, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». La struttura di Bollate, fin dalla sua creazione, è stata dedicata a progetti avanzati di reinserimento dei detenuti. Dal ristorante “In galera”, il primo e unico in Italia nato all’interno di un carcere e aperto al pubblico, alle varie attività manifatturiere, fino ad arrivare a CarteBollate, periodico di informazione nato  nel 2002 per iniziativa di alcuni reclusi. Quello del carcere milanese è modello che sembra dare i suoi frutti e che andrebbe esteso dato che «qui la recidiva è del 12% circa- fa sapere Parisi- su una media nazionale del 60% circa».

Camere detentive sempre aperte – «Tutte le sezioni sono aperte ed i detenuti possono muoversi liberamente all’interno della struttura, senza l’obbligo di accompagnamento e uscire dalle celle per partecipare alle attività lavorative, di formazione o di socialità», spiega Parisi. Per definire gli ingressi si applica un meccanismo di selezione, basato sull’adesione ad un “patto trattamentale” che include un codice di comportamento ed un impegno all’adesione ai programmi formativi. Questa selezione non è applicata né alle donne né ai “protetti”, cioè i detenuti che non possono vivere nelle sezioni comuni per i loro comportamenti contrari “all’etica del carcere”, come collaboratori di giustizia o autori di reati sessuali. All’interno della casa di reclusione ci sono diversi sportelli, come quello di consulenza giuridica o lo sportello salute, in cui gli stessi detenuti affiancano giuristi volontari e personale sanitario. «Tra poco verrà aperto anche un polo produttivo per la lavorazione dei rifiuti elettronici», ha annunciato il direttore.

Un progetto per curare i sex offender Bollate è il primo carcere italiano ad aver creato nel 2005 un progetto di recupero per i sex offender. «Il problema con gli autori di reati sessuali è aiutarli a prendere coscienza di quanto hanno commesso», spiega Andrea Scotto, uno degli psicologi che operano all’interno dell’unità di trattamento intensificato. Si tratta di un percorso complesso e che non sempre dà risultati, ma bisogna tentare. Il rischio se no è che una volta in libertà tornino a commettere quegli stessi reati, anche dopo 10 o 15 anni di carcere. Oltre che sui disturbi della personalità, il percorso si concentra sulle distorsioni che portano una persona a commettere una violenza sessuale. «Questo tipo di reato- racconta Scotto- è lungamente preparato anche se in modo inconsapevole. Il nostro lavoro parte dalla rimozione di tutto ciò che porta il sex offender a negare quanto ha commesso e la sofferenza che ha inferto alla vittima». Questo progetto è stato raccontato anche nel film documentario Un altro me.