Sbarcano nel Sud della Sicilia. Con sé, i più fortunati, hanno appena qualche effetto personale. Gli altri arrivano a mani vuote. Nel cuore, però, hanno tutti lo stesso sogno: il Nord Europa. Con questo desiderio, il 16 febbraio, più di mille migranti hanno raggiunto le acque a sud di Lampedusa. Qui sono stati soccorsi dalla marina militare, prima di essere smistati nelle varie strutture di accoglienza sparse per il territorio nazionale. Milano, che dallo scorso 18 ottobre si fa carico dell’emergenza dei profughi siriani, ne ha accolti stavolta 114. Tra questi, più di 20 bambini e un neonato. Persone, tutte, ospitate nei due centri di via Fratelli Zola e via Aldini. Strutture che ormai, con i loro 240 posti totali, stanno per scoppiare.
«Siamo oberati», racconta Anna Maria Lodi, presidente della cooperativa Farsi Prossimo, che insieme alla Fondazione Progetto Arca gestisce l’accoglienza nei centri milanesi: «I flussi, però, non sono governabili. Per questo dobbiamo affrontare la situazione giorno per giorno. Nessuno, finora, è mai rimasto per strada». Dal 18 ottobre sono state 2500 le persone giunte nel capoluogo lombardo. Prevalentemente famiglie, alcune al completo: genitori, figli e nipoti. Soprattutto, poi, ci sono i bambini. Tre, in questo ultimo gruppo, quelli al seguito di Hamid (nome di fantasia, n.d.r.), vedovo siriano giunto solo a Milano con i figli piccoli di cui prendersi cura.
Nelle strutture di via Fratelli Zola e via Aldini i profughi siriani trovano un grande guardaroba, assistenza medica e tre pasti al giorno. Qui, però, restano poco, in alcuni casi soltanto qualche giorno. Il tempo di rimettersi in sesto, dopo l’estenuante traversata del Mediterraneo. Il loro obiettivo, infatti, è raggiungere la Svezia e chiedere lì asilo politico. Anche per questo Milano, nonostante i grandi flussi, è riuscita finora a gestire l’emergenza: il ricambio è continuo. In città restano in pochi, mai per scelta: sono persone che per una serie di problemi, in primis la mancanza di soldi, non sono riscite ad attraversare la frontiera.
Quello dei ricoveri pieni, in ogni caso, è un problema sempre più urgente e meno trascurabile. Per ora, di piani futuri non ce ne sono. «Milano non può farsi da sola carico di migliaia di siriani», ha denunciato nei giorni scorsi, in previsione dell’ultimo l’arrivo, l’assessore alle Politiche sociali di Palazzo Marino Pierfrancesco Majorino: «Non abbiamo più posti materiali». Per questo, l’assessore milanese si è lanciato contro Regione e governo: «Sembra che non si siano ancora accorti che ci sono i siriani in Italia. Troppo facile scaricare addosso a un solo Comune la responsabilità. Noi abbiamo la coscienza strapulita».
Milano, però, tiene duro. Grazie a un grande lavoro di squadra e solidarietà: un impegno al quale partecipano ogni giorno medici, specialisti, educatori e interpreti. Il consigliere Pd Alessandro Giungi e l’assessore allo Sport Chiara Bisconti hanno intanto lanciato una proposta: intitolare la pista del centro sportivo Carraro di via Dei Missaglia a Samia Yusuf Oman, la giovane atleta somala che aveva corso alle Olimpiadi del 2008 in Cina e annegata nel Mediterraneo nel 2012, nel suo viaggio verso la speranza.
Giulia Carrarini