Oggi come 35 anni fa, il viavai davanti all’aula 309 dell’università Statale di Milano è frenetico. I professori si fanno largo tra gli alunni, con il codice sotto al braccio, pronti per tenere le loro lezioni. Il 19 marzo 1980, mentre era diretto proprio verso l’aula 309, veniva ucciso il magistrato Guido Galli. A freddare il professore di criminologia e giudice istruttore, furono i proiettili sparati da un commando di Prima Linea. Si trattava di un gruppo di terroristi di sinistra fuoriusciti da Lotta Continua e secondi solo alle Brigate Rosse come numero di omicidi nei cosiddetti “anni di piombo”. Vicino al suo corpo fu trovato il suo codice, non se ne separava mai. Rappresentava ciò in cui più credeva: la giustizia. L’11 dicembre a Guido Galli è stato conferito il riconoscimento di Laureato Benemerito 2015 della facoltà di giurisprudenza dell’università Statale di Milano.
Era considerato pericoloso dai terroristi rossi, un magistrato da eliminare. Aveva appena istruito la prima maxi inchiesta sul terrorismo dopo l’arresto di Corrado Alunni, uno dei più attivi esponenti delle forze combattenti di sinistra di quegli anni. Il giudice non aveva scorta e, come ricordano gli amici a distanza di anni, «non chiudeva mai la porta di casa», cercava di restare sereno, per il bene di quelli che lo circondavano. Per i terroristi fu facile avvicinarlo. Gli chiesero, prima di eliminarlo: «È lei il dottor Galli?». Poi tre colpi di calibro 38, sparati da Sergio Segio, lo uccisero. Intanto un altro terrorista, Michele Viscardi, lanciò un fumogeno per simulare una bomba e disperdere gli studenti fuori dall’edificio. Quel giorno in università c’era anche la prima dei cinque figli di Galli, Alessandra, studentessa di Legge da poco più di un anno che ancora oggi ricorda quegli attimi con commozione.
Alessandra, così come sua sorella Carla, ha seguito le orme del padre ed è diventata giudice. Si emoziona quando ricorda la figura di Galli, “magistrato esemplare”, “uomo comune”, “eroe del quotidiano”. L’amore di Galli per le istituzioni, il sacrificio per un sistema di giustizia migliore e la lotta per la democrazia sono solo alcuni dei valori che amici e colleghi del giudice ricordano a 35 anni dalla sua morte.
Lo fanno “per non dimenticare”, perché negli anni dei processi, dei pentiti e delle scarcerazioni, molti si sono scordati del sacrificio del giudice istruttore. «Ci hanno chiesto in continuazione di perdonare gli assassini di nostro padre. Ma i terroristi non avevano mai mostrato interesse ad averlo questo nostro perdono», spiega Carla Galli. Lei, come gli altri che hanno conosciuto suo padre, preferiscono rifugiarsi nei ricordi. Quelli di un uomo entusiasta di tutto ciò che faceva, che amava i principi di libertà ma anche quelli di un sistema giudiziario forte, presente. Un modello di cui, ancora oggi, l’Italia sente il bisogno.
Michela Rovelli e Federica Villa