Il passaggio da zona rossa a zona gialla ha permesso la riapertura di molte attività culturali. In Lombardia questo è avvenuto in modo repentino, condizionandone ripartenza e programmazione. L’assessore alla Cultura di Milano, Filippo del Corno, si sta battendo perché avvenga in modo coordinato e progressivo, appellandosi al governo affinché la riapertura sia irreversibile, anche durante i fine settimana.

Il 4 febbraio ha pubblicato sul Foglio una lettera indirizzata a Mario Draghi per chiedere che, come primo atto dell’eventuale nuovo governo, si attui una ripresa programmata, coordinata e non reversibile delle attività culturali. Ha ricevuto una risposta?
La mia richiesta si basa sulla necessità di una ripresa delle attività culturali fondata su programmazione – ovvero su una calendarizzazione che venga attuata con grande anticipo -, coordinamento – per una ripresa sistemica e non basata sulle singole volontà individuali -, non reversibilità – cioè sottratta al principio presente nel Dpcm che lega la ripresa delle attività culturali alle fasce di rischio. Naturalmente si deve prevedere che qualora accada una nuova emergenza sanitaria di particolare gravità si possa disporre comunque la chiusura. La proposta che ho fatto è diventata un appello, firmato da diversi esponenti del mondo della cultura e ripreso dall’associazione Cultura Italiae e da altri. Il presidente incaricato Draghi in questo momento è impegnato nelle consultazioni con le forze politiche e con le forze sociali per dar vita a un nuovo governo quindi posso capire che non abbia trovato né il tempo materiale né per approfondire il senso della mia proposta né per darmi una risposta, ma io resto fiducioso.

Con una lettera al Corriere della Sera, il 30 gennaio, lei chiedeva un’apertura coordinata del sistema museale cittadino dalla prima settimana di marzo. Tuttavia, alcune attività sono già ripartite. È comunque soddisfatto della gradualità delle riaperture o si aspettava una risposta diversa?
È chiaro che nel momento in cui la Lombardia è entrata in fascia gialla con diverse settimane di anticipo rispetto alle previsioni, i singoli istituti museali hanno sviluppato un calendario di riapertura sperimentale per tarare quella che è la desiderata riapertura con i protocolli anti Covid-19. Tuttavia, posso dire che la mia proposta è stata accolta: tutte le istituzioni museali hanno deciso di realizzare una forte iniziativa coordinata e congiunta nella prima settimana di marzo con l’iniziativa Museo city. Questa rappresenterà una forte presa di posizione dell’intero sistema museale in cui si offrirà un programma fortemente coordinato e condiviso, con la richiesta di apertura anche nel fine settimana. Bisogna inoltre sperimentare una nuova relazione con la domanda di partecipazione culturale: le nostre città sono prive di turisti quindi c’è la necessità di sviluppare un principio di attrattività per la comunità cittadina e un programma strategico per il turismo di prossimità.

Al contrario dei musei, le gallerie private erano rimaste aperte anche in zona arancione perché considerate come normali esercizi commerciali. Non crede che questa situazione abbia penalizzato le attività che, invece, sono state costrette a rimanere chiuse?
Non parlerei di penalizzazione, ma di una differenziazione perfettamente logica dal punto di vista della qualifica di attività. Alcuni esercizi commerciali svolgono un’importante funzione pubblica culturale che va riconosciuta  – le gallerie d’arte, come le librerie. In questi anni ho lavorato molto affinché la funzione pubblica delle gallerie venisse riconosciuta, includendole molto spesso nell’attività di programmazione che abbiamo fatto con iniziative diffuse. Quello che io ritengo profondamente sbagliato è non capire che l’attività culturale sarebbe il miglior accompagnamento possibile alla campagna di vaccinazione medico-scientifica. Il virus fisico lo si contrasta solo adottando il principio rigoroso della medicina, quindi con la vaccinazione, ma tra le conseguenze della diffusione dell’epidemia c’è una pericolosissima disgregazione sociale, un pericolo grande tanto quanto quello della crisi economica e della carenza formativa. La crisi sociale la si può combattere attraverso una campagna di vaccinazione sociale il cui vaccino c’è già: aprire i luoghi di cultura.

Secondo lei ha senso pensare a una patente sanitaria per poter accedere ai luoghi della cultura, così da facilitare un’apertura continuata?
No, la patente vaccinale è un atto discriminatorio: la partecipazione culturale deve essere garantita a tutti. I luoghi della cultura sono quelli che hanno applicato in maniera seria e rigorosa i protocolli di accesso (ad esempio la misurazione della temperatura, l’identificazione, ecc.). Nonostante io sia un vaccinista convinto e penso sia sbagliatissimo non vaccinarsi, non si può impedire a una persona che per qualsiasi motivo non lo fa di entrare in un museo, in una biblioteca o in un teatro. Deve avere il diritto di farlo. Aggiungo che è profondamente contradditorio l’atteggiamento che la nostra società sta adottando nei confronti del rischio di assembramento. Il sabato e la domenica, quando statisticamente la maggioranza delle persone ha del tempo libero, in assenza di qualsiasi forma di alternativa ci si assembra realizzando quel comportamento che poi viene profondamente criticato e stigmatizzato dalla stessa autorità che lo genera. Se noi avessimo i teatri aperti, i cinema aperti, i musei aperti, arriveremmo a disperdere questo assembramento.