Seicentotrentamila firme di cittadini non sono bastate. Nel pomeriggio del 17 febbraio la Corte costituzionale ha bocciato il referendum sulla cannabis, giudicato inammissibile in quanto «andava a toccare anche le cosiddette droghe pesanti, portandoci a violare gli obblighi internazionali», come ha dichiarato il presidente della Corte Giuliano Amato in una lunga conferenza stampa dopo la pronuncia. La decisione ha scatenato le proteste del comitato promotore del quesito referendario e dei sostenitori della proposta che, con toni molto duri, hanno parlato di un grave affronto alla democrazia. I sondaggi, che vedevano il 58% della popolazione favorevole alla parziale legalizzazione, segnalano una sconfitta che è soprattutto da attribuire all’immobilismo del Parlamento. I legislatori italiani risultano non in linea con la società di cui sono espressione e in ritardo anche rispetto a molti altri Stati del globo, investiti negli ultimi anni da un’ondata di liberalizzazione che, secondo i dati disponibili, avrebbe effetti positivi sul consumo e sul mercato illecito.

Il referendum – Il quesito referendario sulla cannabis proponeva di depenalizzarne la coltivazione e di eliminare il carcere per qualsiasi condotta relativa alla sostanza, punendo solo lo spaccio, il trasporto e l’esportazione. Chiedeva poi un intervento anche sul piano amministrativo, con l’eliminazione della sospensione della patente di guida per chi coltiva l’erba (ma non per chi si mette al volante sotto effetto di cannabis). Il testo è stato dichiarato inidoneo perché, secondo la Corte, presenta un errore di formulazione, trascurando di eliminare alcune parti del codice che sarebbero entrate in conflitto tra loro. Soprattutto, però, i giudici costituzionali hanno ritenuto che, eliminando il divieto di coltivazione nel comma 1 dell’articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti, si sarebbe consentita la coltivazione di qualsiasi pianta, portando appunto alla violazione degli obblighi internazionali. Da parte loro i promotori hanno accusato la Corte di non aver capito la formulazione del quesito, dando la colpa alla pessima scrittura della legge: «Il riferimento al comma 1 non è stato fatto per errore – ha dichiarato a Repubblica Leonardo Fiorentini, segretario del Forum Droghe e autore tra gli altri del testo – L’unico modo per depenalizzare la coltivazione a uso personale della cannabis tramite referendum era intervenire anche sulle altre piante, mantenendo però intatte le pene per tutte le altre condotte».

La situazione in Italia – Al 2018 (in base alla relazione annuale al Parlamento del Dipartimento per le politiche antidroga sui consumi del 2017), sono almeno sei milioni i consumatori di cannabis in Italia, per un mercato illecito stimato di 6,3 miliardi di euro (per quanto risulta alle forze dell’ordine). Un italiano su dieci aspetta da decenni che il Parlamento si pronunci in favore di una liberalizzazione. Dopo decine di proposte di legge mai andate in porto, l’unica modalità legale per assumere cannabis è l’utilizzo di farmaci a base di cannabinoidi prescritti da un medico. L’uso ricreativo di marijuana e anche la sua coltivazione in piccolissime quantità per uso personale sono state depenalizzati e ridotti a reato amministrativo, ma rimangono illegali. Il più recente tentativo di modificare la legge in materia è stato contemporaneo della raccolta firme per il referendum: l’8 settembre 2021 la commissione Giustizia della Camera ha faticosamente approvato un testo base che permetterebbe la coltivazione in casa di non oltre quattro piante e la diminuzione delle pene per i fatti di lieve entità. Ma la proposta ha incontrato l’aspra opposizione di parte della maggioranza ed è ora ferma in attesa della discussione degli emendamenti.

Il resto del mondo – La mappa del resto del mondo è colorata di verde a macchia di leopardo e presenta varie sfumature. L’Uruguay è stato il primo Paese a legalizzare la coltivazione e la vendita della marijuana, rendendola monopolio di Stato. Non è considerata nemmeno una droga in Corea del Nord, dove l’uso è completamente libero. Anche Canada, Cile, Argentina, Australia e Giamaica consentono, con diverse limitazioni, la coltivazione, la vendita e il consumo a scopo terapeutico e ricreativo della pianta. Il Messico ne consente il consumo solo per scopi terapeutici, ma ha recentemente depenalizzato l’uso personale. Nei vicini USA, invece, sono ormai 17 gli Stati dove è legale consumare marijuana anche a scopi ricreativi, seppur con alcune differenze. Hanno avviato la rivoluzione il Colorado e lo Stato di Washington con un referendum nel 2012, seguiti da Alaska, Oregon, Washington D.C nel 2014 e California, Massachusetts, Maine e Vermont nel 2016. Ultimissimo arrivato lo stato di New York, dove la marijuana è legale da marzo 2021. In Europa la situazione è molto varia ma orientata alla liberalizzazione: a ottobre 2021 il Lussemburgo ha annunciato la legalizzazione della produzione e del consumo di marijuana, mentre a metà dicembre Malta è diventato il primo Paese europeo a rendere pienamente legale il consumo a scopo ricreativo. La legislazione è piuttosto morbida anche in Repubblica Ceca, dove è consentito il possesso fino a 15 grammi e la coltivazione per uso personale. Idem in Spagna, dove è previsto anche il consumo collettivo nei Cannabis Social Club, versione spagnola (con regole diverse) dei famosi coffee-shop olandesi. E se il Portogallo si distingue per essere stato il primo Paese al mondo a depenalizzare il consumo di tutti gli stupefacenti, in Svizzera le norme sono ancora più stringenti di quelle italiane: sia il possesso che la coltivazione della sostanza con Thc superiore all’1% sono illegali.

Il caso USA – L’allarme dei proibizionisti riguardo a un’impennata dei consumi e a una deriva della società verso la tossicodipendenza e la criminalità sembra essere per il momento infondato. I numeri parlano chiaro. Negli Usa non solo la liberalizzazione non ha portato un aumento né dei consumatori né dei reati, ma sta creando risorse: genera nuovi posti di lavoro, diminuisce l’affollamento delle carceri per piccoli reati di droga e, soprattutto, accresce il fatturato statale di circa 12 miliardi di dollari l’anno, sottraendo il commercio al mercato nero. Secondo dati della polizia di frontiera americana, citati da il Post, già nel 2016 la legalizzazione ha avuto un impatto benefico sulle importazioni illegali di stupefacenti dal Messico, registrando i valori più bassi degli ultimi dieci anni.