Spunta un nuovo progetto per i centri di permanenza per i rimpatri voluti un anno fa dal governo Meloni e poi bloccati dalla magistratura. In attesa della sentenza della Corte di Cassazione prevista per mercoledì, il piano B dell’esecutivo prevede la trasformazione di almeno uno dei centri  in un carcere dove trasferire i detenuti di origine albanese oggi presenti nelle carceri italiane, in tutto 1.947.  Di questi, 1.382, si legge sul Fatto Quotidiano,  risultano condannati in via definitiva e quindi interessati dal provvedimento. Gli albanesi sarebbero quindi circa il 10 per cento di tutti i detenuti stranieri in Italia, in totale circa 19mila, pari a un terzo dei 62mila detenuti complessivi. i cui paesi di origine principali sono Marocco, Tunisia e Romania.

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Autore: Sandor Csudai
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Gli accordi – Il trasferimento di detenuti albanesi dalle carceri italiane potrà essere agevolato dall’accordo firmato tra i due paesi nel 2002 e rinnovato nel 2017. Il patto permette il trasferimento reciproco di detenuti e si iscrive nella cornice della Convenzione di Strasburgo del 1983 che permette lo scambio di reclusi tra paesi parte dell’accordo. Il principale problema riguarderebbe però la volontà dei detenuti, che secondo gli accordi devono chiedere il trasferimento o quanto meno acconsentirvi.

Il personale italiano – La soluzione ipotizzata permetterebbe l’utilizzo dei centri di Shengjin e di Gjader, oggi svuotati dalla presenza di agenti penitenziari, poliziotti, medici e infermieri. I complessi, dal costo complessivo di 800 milioni di euro circa, hanno visto una drastica riduzione del numero del personale italiano presente in loco nell’ultima settimana: inizialmente c’erano 220 agenti di polizia italiana, ma almeno 50 sono tornati in Italia. Secondo la co-presidente di Volt Europa, un partito sovranazionale di centrosinistra con cinque seggi al parlamento di  Strasburgo, Francesca Romana D’Antuono, il 75 per cento del personale avrebbe già lasciato i centri.

Le decisioni – Mentre il piano B del Governo inizia a strutturarsi, si attendono i prossimi passi riguardo la decisione della Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Mercoledì 4 dicembre è attesa la Cassazione si pronuncerà sul ricorso presentato dal governo Meloni, mentre a febbraio – con sentenza ad aprile – sarà la volta dell’organo europeo che stabilirà se il governo italiano potrà o meno stilare un elenco rigido di paesi considerati sicuri per il rimpatrio. La qualifica di “paese sicuro” è codificata da un decreto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2013, in cui si spiega che nel paese in questione «in generale e in maniera uniforme, non si ricorre alla persecuzione […], alla tortura o a trattamenti o pene inumani e degradanti». Definizione che per esempio rende Egitto o Bangladesh ineleggibili come sicuri perché territori in cui diverse minoranze e comunità vengono discriminate.