angelino_alfano_eppDa delfino di Berlusconi a stampella del Pd. Ma sempre da ministro. La carriera politica di Angelino Alfano è segnata da una continuità di governo che gli ha permesso di collezionare tra il 2008 e il 2016 le poltrone di tre dei più importanti ministeri. Giustizia, Interni e ora Esteri. Il primo incarico da nemico del Pd. Gli altri due da alleato fondamentale del partito ex avversario, che senza di lui e i suoi numeri non avrebbe la maggioranza al Senato.

Avvocato siciliano, nato ad Agrigento nel 1970, inizia la carriera politica a 26 anni con l’elezione in Forza Italia all’Assemblea regionale dell’isola. In quell’occasione ottiene già un buon numero di preferenze, quasi nove mila, e può contare sull’appoggio politico del padre, ex esponente della Dc con vari incarichi nel comune agrigentino. Nel 2001 c’è il grande salto in Parlamento. Eletto sempre in Forza Italia alla Camera, Alfano si fa notare come uno dei giovani emergenti del partito e nel 2005 ne diventa coordinatore regionale in Sicilia, succedendo a Gianfranco Miccichè.

Con la vittoria di Forza Italia alle elezioni politiche del 2008, l’8 maggio di quell’anno diventa per la prima volta ministro. A soli 37 anni è il più giovane ministro della Giustizia della storia repubblicana e il suo primo provvedimento da ministro non passa inosservato. È quello che le cronache politiche battezzeranno come “lodo Alfano”, approvato il 22 luglio 2008 e poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale nel 2009. Una legge che, unica in tutto il panorama europeo, sospende i processi a carico delle quattro più alte cariche dello Stato per la durata del loro mandato. Anche del presidente del Consiglio, quel Silvio Berlusconi di cui, secondo la stampa dell’epoca, Alfano è nel frattempo diventato “delfino”, ovvero un erede designato oltre che un fidato braccio destro.

Il legame con il leader di Forza Italia si stringe ancor di più e raggiunge il suo apice nel 2011 quando Alfano si dimette da ministro per diventare il primo segretario del Popolo della Libertà, il partito nato due anni prima dalla fusione di Forza Italia con Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Gestire il partito non è semplice, perché proprio nel 2011 c’è la scissione dei finiani e la nascita di Futuro e Libertà. Questa volta Alfano si schiera con Berlusconi e la vecchia Forza Italia, ma non succederà lo stesso nel novembre di due anni dopo. Il governo Berlusconi nel frattempo è caduto ed è stato sostituito da Monti. Le successive elezioni dell’aprile 2013 non hanno indicato una chiara maggioranza e nasce il governo Letta, sostenuto da Pd e Popolo della Libertà. Alfano è nominato ministro dell’Interno e vice premier in rappresentanza del patto con il partito avversario. Un patto che nel novembre già scricchiola in seguito all’esclusione di Berlusconi dal Senato a causa dei suoi processi. Una situazione di fronte alla quale Alfano reagisce con la rottura definitiva dall’uomo che lo aveva lanciato sul palcoscenico della grande politica.

In risposta all’uscita del Pdl dalla maggioranza, Alfano annuncia la formazione di due gruppi politici, uno alla Camera e uno al Senato, con il nome di Nuovo Centrodestra e riesce a raccogliere tra i fuoriusciti dal Pdl numeri sufficienti per salvare la maggioranza che sostiene il governo Letta. È la mossa che gli permette di rimanere ministro per tutta la durata di quell’esecutivo e di ottenere la riconferma durante la formazione del governo Renzi, nel febbraio 2014. Una riconferma resa necessaria per l’appoggio determinante che il gruppo di Alfano garantisce per la sopravvivenza dello stesso governo. Senza quei voti in Parlamento, una maggioranza non c’è. È lo stesso motivo per cui era impensabile non trovare il nome di Alfano nella lista dei ministri del neonato governo Gentiloni, che si basa sulla stessa maggioranza dei due esecutivi precedenti.

La “promozione” al ministero degli Esteri, lasciato vuoto proprio dal nuovo premier, ha sopreso molti commentatori che si aspettavano piuttosto una riconferma agli Interni. Dove Alfano si è dovuto occupare soprattutto della questione immigrazione, una patata bollente che passa nelle mani di Marco Minniti. Tra i momenti più difficili alla guida del Viminale si ricorda il “caso Shalabayeva”, la moglie di un dissidente kazako rimpatriata a forza insieme alla figlia, per il quale Alfano rischiò di subire la sfiducia da parte del Parlamento nel luglio del 2013. Su questo evento hanno ironizzato non poco le opposizioni alla notizia della nomina di Alfano agli Esteri, attaccandolo sulla sua scarsa esperienza di questioni internazionali.