«Abbiamo atteso di vedere la squadra dei ministri, ma siamo molto delusi: questo non è il governo dei migliori, è un governo di destra, che rischia di portare indietro l’orologio del Paese». Con queste parole Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra Italiana, annuncia la volontà dell’assemblea nazionale del partito di votare contro la fiducia a Mario Draghi: ma gli altri due parlamentari di Si nel gruppo Liberi e Uguali, Loredana De Petris e Erasmo Palazzotto, fanno sapere che sosterranno il nuovo Esecutivo.


Continuità – «È una scelta che rispettiamo ma che riteniamo sbagliata e controproducente per la sinistra e per le fasce sociali messe più a rischio dalla crisi»: così la senatrice e il deputato di Si argomentano il loro dissenso circa la decisione dell’assemblea, che con 122 voti favorevoli su 142 si è espressa compatta per il no al Governo Draghi. Alla base dell’“insubordinazione”, per Palazzotto e De Petris c’è una questione di responsabilità, oltre al desiderio di dare continuità al percorso politico intrapreso con il Governo Conte bis: «Vediamo tutte le contraddizioni e i problemi che una maggioranza di questo tipo porta con sé, ma sappiamo che in un momento difficile come questo serve assumersi la responsabilità di dare risposte al Paese difendendo quanto era stato fatto fino a qui dal precedente Esecutivo». Il no alla camera del leader di Sinistra Italiana sarà dunque l’unico voto contrario a Draghi tra i 12 membri del gruppo Liberi e Uguali. Confermando la collaborazione di Si con Pd e M5s, Fratoianni non ha digerito il tentativo del nuovo Governo di «riavvolgere il nastro della sperimentazione riproponendo alcuni dogmi, alcuni tecnici tra quelli più lontani dalla transizione ecologica di cui abbiamo bisogno, accompagnati dai campioni della diseguaglianza e della discriminazione».

Le prime divisioni – Con due parlamentari su tre ad agire contro le decisioni del partito, quello che si prospetta per Si è una spaccatura interna: l’ennesima per la sinistra in Italia, che dagli albori della sua storia ormai centenaria lotta inesorabilmente contro il virus della frammentazione, che ha ridotto molte forze politiche progressiste in particelle via via più isolate e periferiche in termini di consenso e rappresentanza. In principio fu la scissione di Livorno del 1921, quando al XVII congresso del Partito Socialista da una costola di dissidenti e rivoluzionari nacque il Partito comunista italiano. Tra il 1947 e il 1964, i socialisti subirono sue divisioni: prima quella di Giuseppe Saragat, che fondo il Psdi, poi quella di Tullio Vecchietti che fondò il Psiup (in seguito confluito quasi totalmente nel Pci). Intanto i comunisti perdevano il gruppo del manifesto (1969), e il Pdup (1972), la corrente dei socialisti guidati da Vittorio Foa. Anni di conflitti, di dissidi ma anche di grande partecipazione politica: nonostante tutto il Pci diventa il più grande partito comunista d’occidente (34% alle elezioni del 1976).

La crisi – Negli anni Ottanta la sinistra entra in crisi. Il primo colpo si ha nel 1984 con la morte di Enrico Berlinguer, quello definitivo nel 1991, quando l’Urss crolla e Achille Occhietto decide per la svolta della Bolognina: il Pci si scinde e nascono il Partito democratico della sinistra (Pds) e Rifondazione Comunista. Massimo D’Alema abbandona la falce e martello, trasformando il Pds in Ds (1998) mentre Rifondazione continua a spaccarsi e dividersi: Comunisti Unitari (1995), Partito dei Comunisti Italiani (1998), Partito Comunista dei Lavoratori (2006).

Il presente – Nel 2007 nasce il Partito Democratico, che ingloba la sinistra post comunista e quella cattolica moderata, e da Rifondazione nasce Sinistra, Ecologia e Libertà (Sel) di Nichi Vendola (2014): il Pd è al governo, ma l’operato del premier e segretario Matteo Renzi non convince l’ala sinistra del partito, che si stacca e fonda Sinistra Italiana (2015), cui confluirà anche Sel. Per il partito a guida Nicola Fratoianni, che dal 2017 fa parte della più larga alleanza di Liberi e Uguali, il futuro è adesso incerto. Con la maggioranza della rappresentanza parlamentare contraria al voto della base (due su tre), prende quota l’idea di una nuova, ennesima, divisione interna: a cento anni di distanza e in un mondo completamente diverso, uno dei pochi elementi di continuità con gli antenati del 1921.