Settimane di discussioni, una commissione di studio (che in Italia non può mai mancare), una bozza ritoccata più volte e una telefonata risolutiva con cui Beppe Grillo ha convinto i ministri pentastellati ad appoggiare la riforma della giustizia. Lo scorso 8 luglio il testo che porta il nome della ministra Marta Cartabia è stato approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri, dopo un’ultima giornata di tensioni e di minacce incrociate di veti.

La nuova prescrizione – Tutto ruota attorno al nuovo impianto del processo penale, già riformato in maniera significativa con la riforma voluta da Alfonso Bonafede. Al centro di quell’intervento normativo c’era lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Stop che viene mantenuto nel cosiddetto “lodo Cartabia”, che però modifica profondamente il processo in appello e in Cassazione. Il testo che arriverà in aula prevede tempi limitati e ben definiti: due anni per il secondo grado e uno per il giudizio definitivo. Scaduti i termini, per il processo viene dichiarata l’improcedibilità; le uniche eccezioni sono previste per reati gravi come mafia, terrorismo, droga e corruzione. Quest’ultima – e così anche altri reati contro la Pubblica amministrazione – è stata inclusa nella lista dopo le resistenze dei Cinquestelle, superate grazie a un emendamento della sottosegretaria grillina Anna Macina. Per i procedimenti particolarmente complessi o che riguardano i crimini appena citati, i termini vengono allungati a tre anni in appello e uno e mezzo in Cassazione.

Efficienza ed efficacia – Non c’è solo la prescrizione. Ad essere riformata è anche la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pubblico ministero, che dovrà avvenire sulla base di una «ragionevole previsione di condanna» dell’imputato, mentre ora è sufficiente la presenza di elementi che consentono di sostenere l’accusa in giudizio. A suggerire la modifica sono i dati dei processi, che nel 40% dei casi si concludono con l’assoluzione degli imputati. Sempre per garantire che l’azione penale venga esercitata con efficacia ed efficienza, si lascia più spazio a riti speciali e alternativi: ad esempio, l’indagato che accetti percorsi «risocializzanti o riparatori» potrà evitare il processo per reati punibili fino a un massimo di sei anni. Viene infine incentivata la digitalizzazione del processo sulla base di ciò che già accade nel processo civile: per accelerare i tempi, sarà possibile depositare atti e notifiche per via telematica.

I tempi dei processi – Le polemiche non si sono fatte attendere. Anche perché il testo qualche perplessità la suscita, in particolare sul fronte dei tempi: secondo le ultime rilevazioni, la durata media di un processo d’appello è di 835 giorni, tre mesi oltre il limite dei due anni introdotto dalla riforma Cartabia. Andando più a fondo, i dati mostrano squilibri profondi tra distretti d’appello: a Milano la durata media di un procedimento di secondo grado è 335 giorni, mentre a Roma si arriva a 1142 giorni e a Napoli addirittura a 2031. Il rischio è che migliaia di processi vadano in fumo prima di arrivare a sentenza. Del resto, tra i Paesi che hanno aderito alla Cedu, l’Italia è quello che ha ricevuto più condanne (oltre 1200) per irragionevole durata dei processi. E Bruxelles, come ha sottolineato l’inquilina di via Arenula, ci ha già ricordato che alla riforma della giustizia è legata l’erogazione dei fondi del Recovery Plan.

Le reazioni – Il tema, come sempre, è divisivo. È sufficiente leggere i commenti dei leader della maggioranza dopo il via libera. Gli esponenti del Pd plaudono per una riforma «che garantisce tempi certi e ragionevoli per la durata dei processi». Positive anche le reazioni di Fi: «L’Italia fa un significativo passo avanti – ha detto la ministra Maria Stella Gelmini – nella modernizzazione della giustizia». Chi non è del tutto soddisfatto sono i due Mattei: Renzi («Non è la riforma che sognavamo, ma sbianchetta la Bonafede») e Salvini («La vera riforma della giustizia saranno i nostri referendum»), che comunque spinge per l’approvazione entro l’estate. Per non parlare dei Cinquestelle, dove i mal di pancia non si contano, a partire da quello dell’ex premier Giuseppe Conte. Il testo arriverà a Montecitorio il 23 luglio: gli annunci di emendamenti e modifiche non si contano.