Rinvii, anticipazioni, dubbi, strappi, smentite, minacce. Il vocabolario di base utilizzato per descrivere lo stato di salute dell’esecutivo italiano oggi ruota attorno a questi termini. Un decreto aiuti da 15 miliardi da approvare entro 10 giorni Due partiti, Lega e il M5s, che non escludono un’uscita dalla maggioranza. Con una guerra alle porte dell’Europa, la siccità al nord più grave degli ultimi 70 anni e un’inflazione mai così alta da dieci anni a questa parte.

L’incontro Conte – Draghi – L’incontro tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e il capo politico del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, è stato anticipato alle 12 di mercoledì. Per velocizzare il più possibile l’approvazione alla Camera del Decreto aiuti, 15 miliardi per imprese e famiglie: il governo auspicherebbe un compromesso parlamentare ma sembra costretto a porre la fiducia. Con il rischio dell’uscita dei pentastellati, anche se nelle stesse ore dell’incontro il cnsiglio nazionale del Movimento sembrerebbe aver concesso una tregua, esprimendo la volontà di rimanere nella maggioranza.

Che sia un “penultimatum” o un incontro distensivo, il faccia a faccia tra Conte e Draghi è sintomo, e sarà forse causa, del malessere del Movimento: l’ex banchiere è dovuto rientrare con un giorno di anticipo dal summit Nato forse più importante dopo la caduta del muro di Berlino, per salire al Colle da Sergio Mattarella e chiarire all’”avvocato del popolo” che «questo esecutivo senza i 5 Stelle non esiste». Ma, al contempo, una nutrita frangia delle truppe parlamentari contiane, già depauperate post scissione di Di Maio, si chiede se «ha davvero senso rimanere nella maggioranza se non ascoltano le nostre richieste?», come confida a Repubblica un deputato di rilievo. «I numeri per andare avanti ce li hanno, che governassero per conto loro».

Il casus belli – La richiesta di cui si parla consiste in un emendamento al Superbonus, misura figlia del Movimento che Draghi ha chiamato «una delle più grandi truffe ai danni degli italiani», per sollevare da responsabilità l’ultimo creditore. All’interno del Decreto aiuti c’è però un altro piatto indigesto, l’approvazione di un termovalorizzatore a Roma, voluto da Gualtieri e Calenda, e osteggiato da sempre dai pentastellati.
Il governo vorrebbe evitare di porre la fiducia su questo decreto, e per questo sta concedendo più tempo del previsto, senza fare pressioni, al ministro per i Rapporti con il parlamento, Federico d’Incà (contiano), per trovare una soluzione interna alla maggioranza. La missione sembra però impossibile, e non si può attendere all’infinito con la scadenza per l’approvazione al Senato il 16 luglio. Il compromesso che propone il governo sarebbe un’approvazione del decreto senza l’emendamento, e senza dunque dover ripassare alla Commissione finanze ed economia di Montecitorio, opzione indigesta anche per il Pd che pur tenta di favorire la mediazione.

Resistenze leghiste – All’interno della maggioranza c’è però chi storce il naso: «Siamo responsabili, mica fessi», afferma il capogruppo leghista a Montecitorio, Riccardo Molinari. «Così rischiamo un grave precedente politico», rincara la dose il segretario Matteo Salvini. «Non si possono dare corsie privilegiate ai Cinque stelle in attesa che risolvano i loro problemi, a noi con i decreti Covid non è stato fatto alcuno sconto».
I 3 miliardi che l’emendamento dei 5 Stelle richiede non ci sono, affermano gli esperti dell’entourage di Draghi e del ministero dell’Economia. Ma, come spesso accade, il merito dello scontro passa in secondo piano. Scivola dietro le difficoltà di Lega e M5s di trovare un’identità e affermare le loro leadership. Con le elezioni che si avvicinano, e insieme a esse la necessità di riacquisire quel consenso dei tempi del governo gialloverde, incrinato da emergenze tanto interne da diventare strutturali, diluito in un cocktail al Papeete. Consenso, in entrambi i casi, mai più ritrovato.