Marco Cuniberti è professore associato di Diritto Costituzionale alla Statale di Milano. Nel corso dei suoi studi si è occupato di diritto dell’informazione e ha collaborato alla stesura del pirmo numero di MediaLaws, una rivista scientifica che studia come si cambia si applica il diritto al mondo del web.

A volte è difiicile tracciare un confine tra bufala, propaganda politica e opinioni personali. Esiste una definizione di fake news?
«La fake news è una notizia falsa. Il punto vero è capire fino a che punto questo contenuto è in grado di provocare danni. Ci sono delle bufale che sono innocue e altre che possono danneggiare persone o interessi generali. A volte si parla addirittura di notizie in grado di minare il processo democratico. Le fake news non sono arrivate con i social network, sono sempre esistite e a volte sono state diffuse anche dai media tradizionali, penso al caso delle armi di distruzioni di massa nascoste da Saddam Hussein. Il fatto che ora se ne parli così tanto probabilmente risponde a una crisi dei media che non sono più grado di plasmare l’opinione pubblica».

Verso che direzione stanno andando le leggi sulle fake news? Fra obligo di rettifica o di rimozione dei contenuti non c’è il rischio che le opinioni vengano trattate come notizie e gli utenti dei social come testate giornalistiche? 
«Questo è un punto su cui non è facile rispondere. Non c’è una direzione specifica verso cui si sta andando. C’è una sentenza del 2015 che distingue chiaramente tra la stampa e la diffusione di opinioni sul web. La tendenza di diffondere le leggi che riguardano la stampa ai social network rischia di fare danni. Chi si occupa di notizie in modo professionale è già sottoposto a tutto un insieme di vincoli ma anche di tutele. Il problema è la zona grigia. Un blog che ha milioni di utenti diventa automaticamente un organo di informazione ma continua a definirsi come blog e quindi è legato alla diffusione di idee personali».

Quali sono gli strumenti che il governo può usare per arginare la diffusione delle bufale online?
«Intanto gli stessi social network o i grandi intermediari come Google saranno spontamente portati ad introdurre nel loro sistema strumenti di verifica, come peraltro sta già succedendo. L’esito di questo processo potrebbe essere il modello Wikipedia, che segnala subito le voci che non sono adeguatamente verifcate. Faccio più fatica a pensare che il risultato di tutta questa polemica potrebbe essere l’oscuramento. È pericoloso invece pensare a strumenti pubblici che possano obbligare questi intermediari a rimuovere i contenuti. L’intervenuto pubblico deve essere ristretto ai casi in cui viene commesso un reato. Quello che invece si può fare è puntare alla trasparenza, la possibilità di risalire agli autori dei contenuti che vengono diffusi online. Bisogna sapere se una notizia viene pubblicata da un privato cittadino, da qualcuno legato a un’azienda o a un esponente di un partito politico. È un problema che si è presentato anche negli ultimi mesi, quando sono emersi tutti gli scandali legati agli account falsi».

Sarebbe efficace una campagna di informazione sulle notizie false nelle scuole?
«Può essere utile ma un’inziaitiva del genere ha dei costi. La proposta di legge della senatrice Adele Gambaro prevede una sensibilizzazione nelle scuole tramite l’alternanza scuola-lavoro. L’idea è quella di portare i ragazzi nelle redazioni dei giornali. Ma non è questo il punto. Gli studenti non devono diventare giornalisti, devono diventare buoni lettori. La scuola può servire ma la soluzione potrebbe essere nel servizio pubblico. La Rai potrebbe allargare i suoi orizzonti dall’ambito radio-televisivo e cominciare a costruire la sua presenza anche in rete».