Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, 77 anni

Il governo Meloni è pronto a mettere mano al reato di tortura. Parola del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che durante il question time alla Camera del 21 febbraio 2024 ha detto di essere «al lavoro per adeguarlo ai requisiti previsti dalla Convenzione di New York». L’obiettivo, ha sostenuto il guardasigilli, è quello di assimilare la normativa italiana a quella internazionale. La decisione del governo, però, ha sollevato alcune perplessità: secondo il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, non si sta parlando di un tecnicismo ma di una possibile anticamera dell’impunità per le forze dell’ordine.

La legge del 2017 – Il reato di tortura è stato introdotto nell’ordinamento italiano con la legge 110/2017, votata da Partito democratico e Alternativa popolare, astensione di Sinistra italiana e Movimento 5 stelle e voto contrario dell’attuale coalizione di governo (Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega). L’articolo 613-bis del codice penale, che norma il reato, punisce chi con violenze o minacce gravi o agendo con crudeltà, causa «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa». La pena prevista va dai quattro ai 10 anni, ma se a compiere la tortura è un pubblico ufficiale la reclusione si alza dai cinque ai 12 anni.

La Convenzione Onu – La legge italiana ha una struttura più ampia di quanto previsto dalla Convenzione di New York dell’Onu del 1984. In Italia, infatti, il reato di tortura può essere compiuto da chiunque, mentre per il testo dell’Onu è necessario che a provocare sofferenza fisica o psichica sia esclusivamente un pubblico ufficiale. Inoltre, all’art. 1 la Convenzione esplicita lo scopo della tortura, che avviene «segnatamente al fine di ottenere da questa [persona, ndr] o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione». Specifiche assenti dall’ordinamento italiano. Da un punto di vista pratico, quindi, l’adeguamento della legge italiana alla Convenzione di New York limiterebbe i casi di applicazione dell’art. 613-bis del codice penale alle sole situazioni in cui ci sarebbe un’intenzionalità specifica.

Luci e ombre – La riforma della legge del 2017 è chiesta a gran voce dai sindacati autonomi di polizia, che assieme agli attuali partiti di governo si opposero già al varo del provvedimento sostenendo che il reato, così come scritto, rischia di limitare l’esercizio della propria funzione da parte delle forze dell’ordine. Non manca, però, chi solleva preoccupazioni. In un commento affidato alle pagine de «Il Manifesto», il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, ha sostenuto che non si tratta, come vorrebbe il ministro Nordio, di un problema tecnico da risolvere: «Modificare l’articolo 613-bis che proibisce la tortura per adeguarla alle norme Onu è una truffa delle etichette». Tanto più che, specifica Gonnella, la destra è sempre stata contraria a questo reato in generale. Per il presidente di Antigone, cambiare la legge significherebbe «dare ragione a chi pensa che le forze dell’ordine debbano avere le mani libere». Una scelta politica, insomma, che tra l’altro metterebbe a rischio alcuni processi già in corso.