Il paradosso di questa riforma: il premier eletto è sostituibile, il sostituto – nominato qualora venisse meno la fiducia del parlamento – no. La modifica a cui l’Italia non è pronta: la sterilizzazione delle funzioni del presidente della Repubblica. A spiegare a La Sestina la riforma costituzionale del cosiddetto “premierato” è Federico Pizzetti, docente di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Milano.

Buongiorno professore, quali sono le principali modifiche introdotte dal disegno di legge?
«Premessa: il testo è una bozza e potrebbe essere modificato. Si vedrà se ci sarà dialogo tra governo e parlamento o se l’esecutivo cercherà di tenere blindati gli articoli. Cinque, per adesso, che modificano quattro articoli della Costituzione: 59, 88, 92 e 94. Sono le modifiche dell’articolo 92 a introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio. La persona che diventa presidente deve essere per forza un parlamentare. È previsto inoltre un premio di maggioranza pari al 55 per cento dei seggi in parlamento per la coalizione che esprime il presidente del Consiglio. La modifica dell’articolo 88, invece, elimina la possibilità per il capo dello Stato di sciogliere anche solo una delle due camere. La modifica dell’articolo 94 prevede che –  in caso di dimissioni del presidente del Consiglio, impedimento o sfiducia delle camere – il presidente della Repubblica riaffidi l’incarico di formare un nuovo governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare della maggioranza. Solo se il nuovo governo non ottiene la fiducia, il capo dello Stato scioglie le camere».

Quali sono le criticità e i punti di forza di questa riforma?
«La prima criticità che mi sento di segnalare è la mancanza di chiarezza del testo. Alcune cose non sono ben scritte. Sembra una banalità, ma la Costituzione aveva voluto essere chiara al di là dei tecnicismi. Il punto di forza, invece, sottolineato dal governo Meloni, è la stabilità che la riforma garantirebbe agli esecutivi. Per l’investitura popolare del presidente del Consiglio e per il premio di maggioranza in entrambe le camere del 55 per cento dei parlamentari. Tuttavia, siccome la democrazia italiana rimane con una forme di governo parlamentare, il premier eletto deve comunque ottenere la fiducia del parlamento. Qualora questa mancasse, i parlamentari pur di restare tali (il capo dello Stato non scioglie subito le camere) voterebbero la fiducia a un qualsiasi premier sostitutivo. Questo meccanismo di nomina di un altro o un’altra presidente non eletta dai cittadini è l’enorme paradosso di questa riforma. Il presidente eletto dal voto popolare è più fragile dell’eventuale sostituto che governerebbe per garantire a deputati e senatori la loro posizione di parlamentari. Altro elemento di criticità è il ruolo del capo dello Stato che verrebbe imbrigliato nelle volontà dei partiti. Certo, questo è ciò che ci si aspetta in una democrazia, ma in un Paese fragile come l’Italia, le soluzioni creative del presidente della Repubblica hanno raffreddato i momenti di emergenza, economica e sanitaria».

L’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (fonte: Wikimedia Commons)

Dalla nascita della Repubblica italiana ci sono stati 68 governi, in che modo si può raggiungere maggiore stabilità?
«Un modo è irrigidendo alcuni meccanismi giuridici. Non è necessaria l’elezione diretta, ad esempio in Germania non c’è. Comunque, durante la Prima Repubblica sono cambiati molti governi, ma il quadro politico in termini macro è rimasto stabile per anni. Un altro modo, poi, ha a che fare con la scienza politica. La stabilità dovrebbe operare nelle forze politiche, nei partiti, e non nel sistema istituzionale. Sempre facendo l’esempio della Germania, lì i partiti hanno fatto una coalizione allargata e stabile. Bisogna anche tenere presente che la carta costituente del 1948 voleva un governo di parlamento con un esecutivo debole».

La riforma cambierà la legge elettorale?
«In questo senso, la riforma ha due effetti: cambia la legge elettorale e inserisce la stessa legge in una cornice, la Costituzione, molto più rigida di quella in cui è attualmente. La nuova legge dovrebbe essere costruita per eleggere i parlamentari su bacini diversi – scala regionale per i senatori e scala nazionale per i deputati – ma consentendo in entrambe le camere il 55 per cento dei seggi alla forza di maggioranza».

Per quanto riguarda questo bonus di maggioranza del 55 per cento, la Corte costituzionale si era espressa già in modo critico. Perché e cosa può fare la Corte per questa riforma?
«Una forma di governo parlamentare mette a sistema: la rappresentatività e la governabilità. La critica della Corte costituzionale alle leggi elettorali “Porcellum” e “Italicum” non era al 55 per cento in sé, ma al modo in cui i seggi venivano distribuiti. Un conto è che alle elezioni vengano votate due forze politiche, un altro è che i voti vengano suddivisi tra tre partiti. In quest’ultimo caso, dare il 55 per cento dei seggi a un partito che ha ottenuto pochi voti, anche se risulta la maggioranza, è stato ritenuto incostituzionale. Se verrà modificata la Costituzione, e quindi introdotto il bonus del 55 per cento, la Corte non potrebbe comunque esprimersi in tal senso».

Per modificare la Costituzione, l’art 138 della Costituzione stessa prevede la revisione e l’approvazione della legge con la maggioranza dei due terzi delle camere. Attualmente non ci sono i numeri, ma se si raggiunge la maggioranza assoluta si potrà procedere con il referendum popolare. Come andrebbe secondo lei?
«La maggior assoluta non si raggiungerà solo se parte dell’attuale maggioranza non voti la riforma in parlamento. Potrebbe essere la Lega, ma comunque è improbabile. Se si arriva alla maggioranza assoluta (Italia viva dovrebbe appoggiare la riforma) si può chiedere il referendum e poi saranno gli italiani a decidere. Come andrà? Bisogna chiedere a chi fa rilevazioni demoscopiche. Se devo dire la mia, rispetto alla riforma di Renzi, che teneva insieme più questioni, è più facile che questa riforma passi. Se il referendum verrà raccontato come una scelta sull’aumento del potere decisionale dei cittadini, potrebbe essere un grosso stimolo affinché gli italiani si esprimano favorevolmente. La controparte da raccontare sarebbe l’indebolimento del potere di manovra del “saggio” presidente della Repubblica, ma, forse, è un punto troppo debole per cambiare la prospettiva degli italiani».

Ultima domanda, è questa la riforma che farà entrare l’Italia nella Terza Repubblica, come ha detto Giorgia Meloni?
«Da un punto di vista giuridico la Repubblica è sempre una. Abbiamo preso dai francesi a nominare le repubbliche. É un’etichetta un po’ provinciale, ma si usa per marcare un cambiamento. Siccome la forma di governo non è mai cambiata, da un punto di vista istituzionale, siamo sempre nella prima repubblica. Questa riforma, poi, non fa un “regime change” e nemmeno un cambio nel sistema dei partiti. Da quest’ultimo punto di vista, a volere dare delle etichette saremmo già nella Terza Repubblica dal 2013 con l’avvento del partito dei Cinque Stelle, che hanno modificato il sistema partitico introducendo un terzo polo forte».