Settecentootto. Sono tanti i giorni di sospensione dall’attività parlamentare comminati complessivamente ai deputati del Movimento 5 Stelle per le proteste contro la bocciatura del disegno di legge sulle pensioni dei parlamentari della scorsa settimana. Ad essere puniti con la più grave delle misure previste, la sospensione dal servizio per quindici giorni, i 19 deputati – tra cui il componente del direttorio Alessandro Di Battista – che lo scorso 22 marzo dopo la bagarre in Aula tentarono d’irrompere nell’ufficio di presidenza della Camera riunito per deliberare sul testo. E se i leader del Movimento si dichiarano “orgogliosi” dell’azione intrapresa, la misura si aggiunge ad una lista ormai corposa di punizioni individuali o di gruppo contro i parlamentari 5 Stelle.
La madre di tutte le battaglie – Tra i momenti che rimarranno forse più impressi della legislatura che si avvia verso la conclusione entro il prossimo anno, c’è senza dubbio lo scontro giunto ai limiti della vera rissa tra deputati pentastellati e di maggioranza sul decreto Imu-Bankitalia. Era il 29 gennaio 2014, al governo c’era ancora il “sereno” Enrico Letta (sarebbe stato defenestrato dal leader Pd Matteo Renzi poche settimane dopo) e oggetto della votazione era un maxi-decreto che prevedeva, tra l’altro, un sostegno alle banche “di sistema” da parte della Banca d’Italia per un valore di 4 miliardi. In aula, i 5 Stelle inscenarono una protesta senza precedenti, arrivando a tentare di bloccare fisicamente lo svolgimento del voto, dopo la decisione contestatissima dell’ufficio di presidenza guidato da Laura Boldrini di imporre la “ghigliottina”, tagliando il tempo agli interventi dei deputati d’opposizione per giungere alla votazione.
Per il sit-in dentro l’aula furono sospesi per dieci giorni ben 23 parlamentari. Per dodici, la particolarmente agguerrita Silvia Benedetti. Che negli stessi giorni si era guadagnata il cartellino rosso per altri dodici giorni per un fatto inedito: un morso dato a un commesso di Montecitorio. Episodio bizzarro, ma meno grave, forse, dell’insulto sessista pronunciato dal deputato Massimo De Rosa nei confronti delle colleghe del Pd, con particolare riferimento ad Alessandra Moretti e Micaela Campana. Per De Rosa le onorevoli erano arrivate a ricoprire i rispettivi ruoli “perchè siete brave a fare p..”. Una battutaccia da bar costata all’esponente grillino tre giorni di sospensione e una lettera ufficiale di biasimo. Coinvolto nelle proteste anche di quei giorni il leader Di Battista, che a margine del voto d’aula impedì all’allora capogruppo dem Roberto Speranza di rilasciare la propria dichiarazione ai cronisti in sala stampa: un’intemperanza punita con lo stop di dieci giorni.
Sul tetto – Non che l’azione di protesta “spettacolare” dei 5 Stelle contro gli scempi, a loro dire, della maggioranza di larghe intese fosse la prima, nè le sanzioni conseguenti. Già a settembre del 2013, a pochi mesi dall’inizio della legislatura, dodici deputati furono sospesi per cinque giorni per essere saliti fin sul tetto di Montecitorio per protestare contro il disegno di legge di riforma costituzionale in discussione alla Camera. Un cartellino rosso superfluo, o forse ben speso, a seconda dei punti di vista, alla luce della sonora bocciatura della riforma poi registrata ai seggi tre anni dopo.
Gli ultimi casi – La lunga lista di “note sul diario” contro i deputati troppo agitati – misure che hanno colpito di frequente anche altri gruppi parlamentari, a cominciare da quello della Lega Nord – non sembra comunque destinata a rompersi. Una sorta di guerra di posizione che al Movimento sembra fare più gioco in chiave politico-elettorale che fastidio per le conseguenze concrete. L’ultimo dei casi in ordine di tempo – prima della sospensione di massa di questi giorni – risale appena allo scorso 3 marzo, quando ad essere sospeso per sei giorni fu il sardo Nicola Bianchi. Punito dall’ufficio di presidenza per aver interrotto il question time su case, mutui e pignoramenti contribuendo attivamente a cori da stadio e srotolamento di striscioni di protesta. Toccò richiamarlo all’ordine, in quella seduta, al presidente di turno dell’aula: il candidato-premier in pectore degli stessi 5 Stelle Luigi Di Maio.