Le ore 15:00 di oggi, 9 giugno, sono ormai passate. Si sono chiusi i seggi, il tempo per votare al referendum è finito. Les jeux sont fait. E il risultato, dati in aggiornamento a parte, è chiaro: con meno del 30% di affluenza alle urne, il quorum (pari al 50% + 1 degli aventi diritto al voto) non è stato raggiunto. Tutto rimarrà esattamente com’era. Se qualcuno ravvisa in questo risultato una debacle, per altri rappresenta tuttavia un nuovo punto di partenza. Perché se è vero che tutto rimarrà esattamente com’era da un punto di vista legislativo, i quattro quesiti referendari proposti dalla Cgil hanno l’innegabile merito di aver rimesso con forza al centro del dibattito politico il tema del lavoro, dei suoi diritti. Un tema che riguarda tutti, sia i lavoratori e le lavoratrici a tempo indeterminato che quelli a termine, per un totale – ultimo dato Istat disponibile, quello di gennaio 2025 – di oltre 19milioni di dipendenti.
I quattro colori delle schede a tema lavorativo consegnate nelle sezioni elettorali rappresentano dunque quattro direttive lungo cui proseguiranno le lotte sindacali. Perché, al netto del mancato raggiungimento del quorum – sul quale hanno influito diversi fattori, tra cui l’invito all’astensionismo – se tutto rimane uguale, rimangono uguali anche i problemi che hanno portato all’indizione del referendum.
Vediamo dunque le quattro istanze di lotta sindacale e le loro ragioni, ciascuna identificata dal colore della scheda elettorale.

Verde – Il problema dei licenziamenti illegittimi nelle imprese con più di 15 dipendenti
Il primo quesito chiedeva il consenso dell’elettore all’abrogazione – dunque all’annullamento – del decreto legislativo sui licenziamenti nei contratti a tutele crescenti del Jobs Act (4 marzo 2015). In base a questa disposizione, lavoratori e lavoratrici assunti dal 7 marzo 2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti non possono rientrare nel proprio posto di lavoro – il cosiddetto reintegro – anche se il licenziamento viene ritenuto illegittimo da un giudice. Una rescissione del contratto avvenuta senza giusta causa o giustificato motivo dunque, alla quale consegue un indennizzo monetario tra le 6 e le 36 mensilità, in funzione dell’anzianità di servizio: due mensilità per ogni anno di lavoro. È stato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini stesso, in un’intervista rilasciata a L’Espresso, a far chiarezza sul punto: rispetto a quanto stabilito dallo Statuto dei lavoratori del 1970, che a fronte di licenziamenti illegittimi prevedeva sia il reintegro che un risarcimento economico (stipendi arretrati + contributi), l’articolo del Jobs Act – in continuità con la precedente Riforma Fornero del 2012 – «tende soltanto a monetizzare il danno subìto da chi viene licenziato senza validi motivi. Il che ingigantisce la subalternità e la soggezione del lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro». Una mutilazione, dunque, del potere contrattuale dei lavoratori, che son divenuti così «più ricattabili».
Sono oltre 3 milioni e mezzo, i lavoratori e le lavoratrici su cui grava questo vuoto di tutela. E aumenteranno nei prossimi anni, rendendo sempre più precario ed instabile il mondo del lavoro dipendente.

Arancione – Contro al limite di indennizzo nel caso di licenziamento illegittimo in aziende con 15 o meno dipendenti
Il secondo quesito chiedeva la cancellazione del tetto all’indennità riconosciuta ai lavoratori e alle lavoratrici licenziat* illegittimamente nelle aziende con 15 o meno dipendenti. Secondo l’attuale legislazione, infatti, qualora il giudice riconoscesse l’illegittimità del licenziamento, il o la dipendente avrebbe diritto a un massimo di sei mensilità di risarcimento (il cosiddetto cap fisso): il secondo quesito referendario rimetteva invece nelle mani del giudice la valutazione dell’entità di indennizzo caso per caso, tenendo conto cioè di parametri come l’anzianità dei lavoratori coinvolti, i carichi familiari e la capacità economica dell’azienda. Sempre Landini, su questo punto, ha ricordato: «Per evitare lungaggini e costi di una causa, i lavoratori solitamente finiscono per accettare accordi penalizzanti, da due a tre mensilità. Si prova un enorme senso d’impotenza, di fronte a tale ingiustizia». Secondo l’analisi di AISO (Associazione Italiana di Outplacement) relativa al 2023, i tempi medi di rientro nel mercato del lavoro si aggirano interno ai 10 mesi, senza un percorso strutturato di reimpiego. Per gli over 50, i tempi si allungano. E con una famiglia a carico – criterio che, secondo il quesito proposto, avrebbe dovuto essere considerato dal magistrato nella definizione del rimborso per licenziamento illegittimo – i problemi divengono ancora più acuti.
Sono 3 milioni e 700mila i lavoratori e le lavoratrici esposti a questa vulnerabilità socio-economica.

Grigio – Contrasto al lavoro precario
Il terzo quesito cercava di mettere una toppa alla piaga del precariato, in uno scenario di crescente deregolamentazione del mercato del lavoro (e dunque di minori diritti dei lavoratori e delle lavoratrici). Il decreto legislativo 81/2015 del Jobs Act, infatti, consente la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo. La scheda grigia chiedeva invece l’obbligo di indicare una causale per il ricorso ai contratti a tempo determinato. Landini ha riassunto il punto sottolineando come il mantra della flessibilità e del libero mercato ci accompagni dalla fine degli anni Novanta. «È diventato egemonia culturale, modello imprenditoriale, politica industriale. Imponendo una narrazione per cui, messe in condizioni di riorganizzarsi senza vincoli contrattuali, le imprese sarebbero sbocciate. È successo il contrario: l’Italia non cresce, il tessuto produttivo si sta erodendo e sempre più giovani fuggono all’estero».

Rosso – La lotta per maggiori sicurezze sul lavoro
Il quarto quesito, infine, chiedeva l’estensione della responsabilità legale alle imprese appaltanti o committenti in caso di infortuni sul lavoro. I dati Inail parlano chiaro: una media di tre morti al giorno sul luogo di lavoro, 500mila le denunce di infortuni nel 2024. Ai quali si devono aggiungere gli incidenti non dichiarati perché avvenuti in contesti di irregolarità, nel nero della deregolamentazione. Responsabilizzando il committente, la responsabilizzazione sarebbe avvenuta a cascata anche nelle imprese sottostanti, nella matrioska dei subappalti. «Rfi, Enel, Eni, Esselunga: le più recenti stragi sul lavoro sono avvenute in filiere simili, che risalivano a società di grandi dimensioni. Lì si sono registrati 700 sui 1077 incidenti mortali del 2024. Possiamo permettere che committenti di tale portata non ne rendano conto, considerato che decidono di strutturare la loro attività in tali forme per ritagliarsi maggiori profitti?», ha ribadito il segretario generale Cgil.