«A un anno di distanza posso dire che sono soddisfatto della scelta fatta, e pieno di speranza per il futuro». È sorridente Enrico Letta commentando il suo primo anniversario da segretario del Partito Democratico alla conferenza programmatica di Europa verde. È da poco tornato dalla manifestazione di Firenze che ha unito la sinistra di tutto il continente nella condanna all’aggressione russa in Ucraina, e ha appena proposto un assegno familiare per rispondere al caro benzina e alla crisi energetica. Lui che ha pacificato il Pd, forse salvandolo dall’autodistruzione e con la capacità di proporsi come principale forza politica progressista e riformista del Paese.

Un anno – Il 14 marzo 2021, Enrico Letta saliva le scale del Nazareno per farsi eleggere, a furor di popolo, per la seconda volta segretario del Partito Democratico. La più grande forza di sinistra lacerata dalle lotte interne tra correnti, che avevano portato alle burrascose dimissioni di Nicola Zingaretti, e smarrita dopo la caduta del governo Conte 2. Un anno dopo il Pd è, nelle intenzioni di voto, il primo partito del Paese e il suo segretario, arrivato come salvatore della patria, è il grande artefice della rinascita dem. Ma il nuovo Ulivo pensato da Letta, il campo largo progressista che va da Fratoianni a Renzi e Calenda, è ancora un cantiere aperto verso le elezioni del 2023, e sono diversi gli inciampi sulla strada. La piena e convinta adesione al governo Draghi non ha intaccato la volontà del leader di riaffermare vecchi valori e vecchie battaglie dimenticate dalla  sinistra, Ius Soli e Ddl Zan in primis. Ma proprio qui stanno per ora i fallimenti del segretario. Della legge sulla cittadinanza per gli stranieri nati e cresciuti in Italia non c’è ancora traccia, e il naufragio del disegno di legge contro l’omotransfobia al Senato è una ferita ancora aperta nell’elettorato.

Vittorie e alleati difficili – «Ho imparato», erano state le prime parole di Enrico Letta di ritorno dai sette anni di esilio parigino cui lo aveva condannato dal 2014 Matteo Renzi spodestandolo in un colpo solo dal Nazareno e da Palazzo Chigi. Il “nuovo vecchio” segretario al suo arrivo sorprese molti, anche chi lo conosceva da tempo. Determinato, fermo, risoluto, poco incline ai compromessi, anche con gli alleati a 5 Stelle. Fin dal suo insediamento ha ribadito l’importanza di un campo largo di sinistra che possa rispondere unito al centrodestra, in quel momento dominante. Era prima del tracollo verticale della Lega, sacrificata ai sondaggi in nome della svolta governista di Matteo Salvini. Ma il progetto politico di Letta si è dimostrato più difficile di quanto immaginava il segretario. Non ha mai messo in dubbio l’alleanza con il Movimento 5 Stelle, ma i suoi patemi interni lasciano preoccupazione. I trionfi delle amministrative dello scorso ottobre – con cui il Pd si è ripreso Roma, Torino e Napoli, confermandosi a Bologna e Milano – sono avvenuti a spese proprio dei sospirati alleati di governo, con l’eccezsione di Napoli dove hanno corso uniti. Evidente l’inversione nella leadership della coalizione. Giuseppe Conte è passato da punto di riferimento progressista e promesso candidato premier nel 2023 a leader sospeso per le beghe burocratiche del Movimento, e ora subalterno al Pd nei giochi di forza dell’alleanza. Il dialogo con i 5 Stelle si è confermato faticoso anche nella corsa al Quirinale che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella, sempre indicato come candidato principe da Letta e vera e propria vittoria dem. É ancora lontano poi un accordo per le amministrative di maggio, che interesseranno più di 700 comuni, tra cui L’Aquila, Genova e Palermo. C’è ancora tempo per costruire il nuovo Ulivo, con le politiche che sono il vero grande obiettivo di Letta. Il 2023 potrebbe dare alla parabola del segretario tutto un altro sapore, nel bene o nel male.