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Il Congresso si farà. Tre mesi di campagna elettorale e lotta interna per decidere chi guiderà il Partito Democratico. E che fanno slittare qualsiasi ragionamento sulle elezioni anticipate. La direzione Pd nel pomeriggio di lunedì 13 febbraio ha approvato la mozione della maggioranza renziana: con 107 sì, 12 no e 5 astenuti il partito avvia l’iter che porterà alle primarie per il nuovo segretario. Matteo Renzi formalizzerà nel fine settimana le sue dimissioni e sabato l’assemblea nazionale darà via al Congresso anticipato. Stesse regole del 2013: neanche messa ai voti la mozione della minoranza che chiedeva tempi più lunghi e il sostegno al governo Gentiloni fino a fine legislatura. Ma se per l’ex premier il Congresso è l’occasione per stanare i rivali interni e mettere un punto alle polemiche, la minoranza di Pier Luigi Bersani e Michele Emiliano evoca lo spettro della scissione.

Le reazioni – «Non voglio nessuna scissione: se deve essere, sia una scissione sulle idee, senza alibi, e non sul calendario. Agli amici e compagni della minoranza voglio dire: mi dispiace se costituisco il vostro incubo, ma voi non sarete mai il nostro avversario, i nostri avversari sono fuori da questa stanza», è stato l’attacco del segretario alla minoranza e al nemico ormai “storico”, Massimo D’Alema, tornato in direzione dopo anni d’assenza. Al fianco di Renzi sul palco il premier Paolo Gentiloni che incassa la sua fiducia: «Congresso e voto sono due concetti distinti, non lo decido io. La data la decidono il premier, i ministri, il presidente della Repubblica e il parlamento». Ma i dubbi sul fatto che il Congresso anticipato non sia un avviso di sfratto a Gentiloni lo nutrono in molti, anche tra i banchi della maggioranza dem. «Il congresso per fare una discussione vera è come fare le tagliatelle con la macchina da scrivere perché in base al nostro statuto serve solo a legittimare il leader», si è smarcato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, unico in quota maggioranza ad astenersi dal voto. Critica anche la minoranza. Per Bersani i tempi sono sbagliati: «Le cose cotte e mangiate non porteranno a nulla di buono. La scissione? Adesso vedremo».

Come funziona – Le primarie per l’elezione del segretario si svolgono ogni 4 anni. Salvo casi eccezionali, come le dimissioni del segretario. Renzi sabato farà un passo indietro, per poi ricandidarsi al ruolo di guida del partito, avviando ufficialmente la corsa alla segreteria. Il Congresso si articola in due fasi: prima il voto degli iscritti, poi le primarie. Le candidature devono essere sottoscritte da almeno il 10% dei membri dell’assemblea nazionale o da 1500 iscritti. I tre candidati che hanno ottenuto più voti in questa prima fase (ma con almeno il 5% delle preferenze o il 15% in tre regioni) sono ammessi alle primarie vere e proprie. La palla passa a quel punto agli elettori del Pd di tutta Italia che nelle urne sceglieranno la figura guida del partito.

Gli scenari – Oltre all’ex premier, i candidati certi sono tre. Roberto Speranza, ex capogruppo del Pd alla Camera, defilatosi dalla maggioranza dopo l’imposizione della fiducia sull’Italicum. E gli outsider Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana e Michele Emiliano, governatore della Puglia. Tre nomi di riferimento per la minoranza dem, da opporre alla compagine renziana in netto vantaggio numerico. Anche per questo motivo tra le stanze del Nazareno si fa sempre più strada la voce di una candidatura di Orlando. Il Guardasigilli potrebbe diventare l’uomo della minoranza per sfidare Renzi dall’interno. Ha già invece escluso l’idea di una sua ricandidatura Gianni Cuperlo, sconfitto nel 2013 dall’ex sindaco di Firenze.