«L’esecutivo italiano era bene a conoscenza dell’esistenza di un mandato di cattura emesso dalla Procura Generale di Tripoli a carico del libico Almasri già dal 20 gennaio 2025». A riportarlo sono state alcune fonti di governo il 5 novembre, giorno in cui il generale libico Osama Njeem Almasri è stato arrestato in Libia con l’accusa di aver torturato detenuti a lui affidati, uccidendone almeno uno (in questo articolo ripercorrevamo tutte le tappe della vicenda).

Nuove versioni – Il 6 novembre anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, uno degli esponenti del governo italiano coinvolto nell’arresto e nel rilascio di Almasri, ha rilanciato questa versione in un’intervista al Foglio, affermando che «L’arresto conferma che non facemmo male a riconsegnarlo alle autorità di quel paese che, nella circostanza, sta manifestando una maturità maggiore di tanti soloni che stanno sproloquiando sull’argomento»,. Il ministro si è riferito in questo modo ai membri dell’opposizione che, «se avessero letto con attenzione tutti gli atti finiti dinanzi alla competente giunta parlamentare avrebbero rilevato che fra gli elementi che furono valutati al momento del rimpatrio ci fu anche una richiesta di estradizione di Almasri da parte dell’autorità giudiziaria libica per processarlo per gli stessi reati». Era insomma tutto scritto nelle carte, bastava leggere, sostiene il ministro. Ma sebbene le ultime dichiarazioni del governo siano chiare, diverso è il caso quando si vanno a riascoltare le motivazioni utilizzate nei successivi al rilascio del generale. 

La prima ricostruzione – Torniamo indietro al 23 gennaio, due giorni dopo l’espulsione di Almasri, avvenuta due giorni dopo dall’arresto in Italia. In Senatolo stesso Piantedosi aveva sostenuto che: «Almasri è stato espulso perché è un soggetto pericoloso. Dopo la mancata convalida dell’arresto da parte della Corte d’Appello di Roma, si prospettava la possibilità che il cittadino libico rimanesse a piede libero sul territorio nazionale per un periodo indeterminato. L’espulsione è stata pertanto decisa in considerazione della sua pericolosità sociale e per salvaguardare la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico». Alla prima dichiarazione di Piantedosi, si era poi aggiunta quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che il 5 febbraio aveva sostenuto l’estraneità del ministero che guida: «L’arresto del cittadino libico è avvenuto senza il preventivo coinvolgimento del ministero della Giustizia». Ministero che in ogni caso avrebbe avuto nelle parole di Nordio «poteri di valutazione sulle decisioni della Corte penale internazionale», che aveva esteso un mandato di arresto internazionale per Almasri il 18 gennaio.
Le parole della presidente del consiglio Giorgia Meloni hanno poi in quei giorni combinato le linee dei suoi due ministri: «La scarcerazione di Almasri non è stata decisa dal governo, ma è stata una decisione della magistratura. Di fronte a un soggetto pericoloso, che rischiava di rimanere a piede libero sul nostro territorio, il dovere dello Stato era espellerlo immediatamente per ragioni di sicurezza. L’espulsione è stata una scelta di buon senso e a tutela dell’interesse nazionale».

I funzionari del ministero – La motivazione del rilascio di Almasri legata a una richiesta di estradizione libica non era quindi emersa in precedenza, e del resto Almasri fu accolto a Tripoli in un clima di festa al momento del rimpatrio, restando in buoni rapporti con il governo libico per mesi. A screditare la possibilità che il governo italiano avesse considerato l’espulsione in Libia come la consegna del generale accusato di tortura alle autorità libiche ci sono anche le testimonianze dei funzionari del ministero della Giustizia, destinatario della richiesta.
Stando ai documenti allegati all’inchiesta del tribunale dei ministri che ha indagato sull’operato del governo sul caso Almasri, la nota trasmessa dalla Libia sarebbe stata trasmessa solo il 22 gennaio, quando il generale libico era già stato espulso dall’Italia. Secondo La Repubblica, che ha consultato gli allegati dell’inchiesta, Cristina Lucchini, dirigente del ministero, ha inoltre affermato che la richiesta era «priva di qualsiasi documento giustificativo» e che non riguardava «una condanna, ma solo un’indagine», mentre Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro Nordio, aveva sostenuto che «quella richiesta non l’ho mai avuta in mano. La valutazione per noi era prima ancora politica che non altro».