Ritornano le primarie del Partito Democratico. Domenica 3 marzo 2019 – a 2 anni di distanza dall’ultima consultazione che aveva incoronato Matteo Renzi segretario su Andrea Orlando e Michele Emiliano – gli elettori dem sono chiamati nuovamente al voto per eleggere il vertice della segreteria nazionale. In corsa – dalla sinistra alla destra del partito – Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, Maurizio Martina, segretario uscente, e Roberto Giachetti, candidato sindaco a Roma nel 2016. Tanti i temi sul tavolo, dall’alleanza con M5s alla segreteria unitaria, ma quali sono le posizioni dei singoli candidati?

Il passato di governo – Il punto di partenza non può che essere la posizione dei tre candidati nei confronti del governo Renzi e dell’ultima criticatissima legislatura. Una nuova proposta Pd deve tenere in considerazione il suo fallimento alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e le cause che l’hanno determinato.
L’uomo che rappresenta discontinuità all’interno dell’universo dem è senza dubbio Zingaretti: «Se ci riproponiamo come il partito borioso che pensa di non aver sbagliato nulla chiudiamo le porte a una funzione possibile che la storia ci sta riconsegnando». Un affondo palese all’ex segretario e una volontà di scrivere un nuovo capitolo della storia del Pd: «Devono contare di più le persone, non i capibastone, e bisogna offrire luoghi in cui possano confrontarsi anche le pulsioni più critiche».
Si sbilancia meno Martina, in un mix di continuità e riformismo: «Orgoglio per quanto abbiamo fatto e inquietudine per quello che non abbiamo realizzato». In parole povere: non ci scuseremo per la Buona Scuola, per il Jobs Act e la legge elettorale del 2017, ma potevamo fare di più e meglio. Si va oltre, senza rinnegare il passato.
Non lasciano invece dubbio le parole di Giachetti: «Rivendico a tutto tondo quello che abbiamo fatto in questi cinque anni». Difficile non considerarlo il perfetto canale di continuità per i fedelissimi dell’ex premier, come Lorenzo Guerini, Luca Lotti o Maria Elena Boschi.

Alleanza con 5 Stelle? – Le difficoltà del Movimento 5 Stelle alle elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna – e un’apparente ripresa dello schieramento di centrosinistra – hanno risollevato la questione della possibilità di aprire i canali di contatto politico tra le due forze, dopo quasi 6 anni di tira e molla reciproco.
L’unico candidato che sembra poter avanzare una specie di “strategia dell’attenzione” è Zingaretti: «Il modello di bipolarismo M5S-Lega non regge, si va verso una fase nuova». Nega di aver mai dichiarato di proporre un’alleanza con i 5 Stelle, ma le sue parole tradiscono dove si trova – secondo lui – l’elettorato da riportare nell’ovile democratico: «Io dico e confermo che tante persone hanno votato quel movimento perché deluse dal Pd. Abbiamo il dovere di andarci a riprendere il popolo che ci ha abbandonato».
Simili, su posizioni tipicamente renziane, sono invece le idee sia di Martina che di Giachetti. Il primo esclude l’ipotesi di alleanza: «Non siamo al gioco dello scambio di figurine – ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera – ci sono differenze profonde con noi». Mentre il secondo è ancora più radicale: «I Cinque Stelle con cui volevano farci alleare stanno implodendo. A quanto pare la strada giusta è andare sempre avanti». Rimane chiusa la comunicazione. Nessun accordo contemplabile, né ora né mai.

Il rapporto con la sinistra – Questione di fondamentale importanza – anche in vista delle Europee di maggio 2019 – è quale atteggiamento si dovrà tenere nei confronti dei vecchi fuoriusciti a sinistra. Parliamo della costellazione di partiti che avevano dato vita a Liberi e Uguali il 3 dicembre 2017: Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista, di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, Possibile, di Giuseppe Civati e Beatrice Brignone, e Sinistra Italiana, di Nicola Fratoianni. Un dialogo chiuso, fino a questo momento, ma tenuto ora in sospeso almeno fino al 4 marzo.
Il più aperto a riprendere i contatti e riproporre una possibile alleanza di tutto lo schieramento di sinistra è Zingaretti: «Non esiste altra possibilità di ricostruire un’alternativa che non abbia il baricentro nel partito nuovo che dobbiamo costruire». Un baricentro che si sposta nettamente – almeno nelle sue parole – verso sinistra: domenica 24 febbraio il governatore del Lazio a Piazza Grande a Roma ha rivendicato con orgoglio la necessità di «muoverci per tornare a vincere con i valori di una sinistra che non lasci soli i lavoratori».
Sulla questione dei rapporti a sinistra rimane più criptico Martina: «Il Pd deve essere perno delle alleanze accanto a esperienze forti sia a sinistra che al centro, ma attenzione alle ricette del passato». Difficile per il candidato più centrista troncare di netto i rapporti con una base di sinistra che sta riprendendo forza. Ma con la difficoltà di non poter scontentare troppo le forze renziane in un ritorno al dialogo con i fuoriusciti di sinistra, che potrebbe far loro puntare allora su un “cavallo” più sicuro e intransigente come Giachetti: «Il Pd non è in macerie, come dice Zingaretti». L’ex candidato sindaco a Roma ha chiuso di netto ogni possibilità di rientro nel partito dei fuoriusciti: «Devo andare avanti. Sono usciti, ma vogliono anche rientrare: bussano spesso alle porte e bussano soltanto da una parte». Attacco non poco velato alle posizioni aperturiste dell’attuale governatore del Lazio.

Ci resta e chi va – Grosso tema sul tavolo è l’idea di una segreteria unitaria, per superare le differenze post-primarie e concentrare quindi le forze sulla campagna elettorale delle Europee.
Zingaretti e Martina si trovano pressoché in accordo su questo punto, con il primo che ha affermato che «nei congressi si confrontano delle idee, poi ci si conta e si dovrà trovare una linea sostenuta da tutti», mentre il secondo sostiene che «la nuova stagione si costruisce nell’unità. Voglio che il Pd si lasci alle spalle una stagione di divisioni insopportabili».
Fa invece la voce grossa Giachetti: «Se dovessi non vincere sto dentro il partito a fare una battaglia di minoranza. Le mie idee sono ben distinte, differenti». Ma ha subito rincarato la dose: «Se fanno l’accordo con M5S e riaprono le porte a quelli che hanno distrutto il Pd, io tolgo il disturbo».

L’esortazione ad andare quanti più possibile a votare domenica – ci si aspetta un’affluenza tra 1 e 2 milioni di elettori – è l’unico punto in comune di tutti e tre i candidati. Comprensibile, nella dialettica partitica di scontro elettorale interno. Ma allo stesso tempo preoccupante per il futuro del partito, in vista dello scenario che si aprirà all’indomani delle primarie, con la campagna elettorale delle Europee da iniziare.