Il procuratore capo di Torino Armando Spataro all'incontro con gli studenti della scuola Walter Tobagi

Il procuratore capo di Torino Armando Spataro all’incontro con gli studenti della scuola Walter Tobagi

«La retromarcia del Governo sull’abolizione del reato di clandestinità? Una decisione incredibile, frutto solo di pressioni mediatiche». Incontrando gli studenti della Scuola di giornalismo Walter Tobagi, il procuratore capo di Torino Armando Spataro non usa mezzi termini per commentare il passo indietro dell’esecutivo sulla cancellazione del discusso reato di clandestinità.

La politica sta ascoltando troppo l’opinione pubblica e i media e troppo poco gli esperti?

«Assolutamente sì. Io credo che chi governa debba essere orientato all’interesse collettivo. In questo caso abbiamo da un lato gli interventi, basati sull’esperienza, dei principali investigatori a livello nazionale. Il procuratore antimafia, il procuratore di Agrigento e l’ex procuratore di Catania, ma anche molti altri, hanno detto chiaramente che questo reato non serve a nulla. Non solo: penalizza le indagini che contano, quelle sugli scafisti e i trafficanti. Dall’altro lato, la posizione della politica fa leva solo sull’impressione. Non si vuole dare ai cittadini un’immagine di scarsa attenzione al tema della sicurezza. Come non approvo le leggi emergenziali nate sull’onda dell’emozione, non approvo neanche questo passo indietro. Tanto più che si tratta di una posizione frutto dell’inaccettabile idea che il terrorista arrivi con gli immigrati. Questo è falso. Chi vuole fare attentati non arriva certo col barcone rischiando di affogare nel mediterraneo».

Lei si è occupato di terrorismo per molti anni, oggi è coordinatore del Gruppo specializzato nel settore antiterrorismo. Per garantire la sicurezza dei cittadini serve un maggiore accesso ai dati, anche privati?

«Non abbiamo bisogno né di nuove leggi, né di nuove convenzioni. Non serve a nulla raccogliere milioni di dati, anche perché troppe informazioni, se gestite male, sono controproducenti. Lo prova il fatto che, in passato, personaggi già segnalati come terroristi non sono stati fermati. Quello che serve davvero è una migliore cooperazione internazionale: a oggi prevale ancora la “proprietà privata” delle informazioni. Italia, Spagna e Germania vantano già una buona collaborazione, mentre incontriamo qualche problema in più con Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi. Ma sul grado di sicurezza delle nostre città vorrei tranquillizzare: disponiamo di una polizia giudiziaria con una tradizione di grande efficacia investigativa, basata sulla collaborazione tra servizi, magistratura e forze dell’ordine».

A dicembre ha convocato i giornalisti piemontesi al tribunale di Torino per un incontro sul rapporto tra informazione e giustizia. A molti è sembrata una stretta nei confronti dei cronisti.

«Mi è capitato di provare sorpresa e delusione quando ho trovato giornalisti non fedeli al loro obbligo di verità. Ho visto, per esempio quando mi sono occupato dell’inchiesta su Abu Omar, cronisti proni alle informazioni che arrivavano dai servizi. In altri casi le notizie provenienti da centri politici, a volte esagerate e infondate, vengono recepite passivamente. Non dobbiamo favorire la diffusione dell’allarme, ma cercare di fare ragionare i cittadini e tranquillizzarli».

C’è una responsabilità anche da parte dei magistrati, nella “spettacolarizzazione della giustizia” che ha denunciato?

«Noi, come magistrati, siamo una parte importante dell’assetto democratico del Paese, ma dovremmo limitarci al nostro lavoro. Che consiste nell’indagare, nel cercare e verificare le prove. Non siamo né gli storici, né i moralizzatori del Paese. Facciamo la nostra parte, per esempio nella lotta alla mafia e al terrorismo, e possiamo vincere solo con la partecipazione di tutta la società. Alcuni colleghi, in passato, sono stati troppo attratti dai microfoni. Io non approvo minimamente coloro che si atteggiano a eroi senza macchia e senza paura. Noi andiamo avanti nella normalità, che è il rispetto del nostro dovere».

Simone Gorla