«Il messaggio di fondo della riforma è che con la presunzione di innocenza bisogna fare sul serio. Non è solo un principio da declamare, ma un diritto che le autorità pubbliche, a partire da quella giudiziaria, devono rispettare e tutelare». Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale dell’Università Statale di Milano e consigliere della ministra della Giustizia Marta Cartabia, commenta così a La Sestina il coro di polemiche che ha accolto la riforma della presunzione di innocenza entrata in vigore lo scorso 14 dicembre. Anche se il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana recita testualmente che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», la riforma in questione si pone l’obiettivo di incrementare le garanzie di cui gode una persona indagata o imputata in un procedimento penale mettendo un ulteriore freno ai cosiddetti “processi mediatici”. La figura chiave della riforma è il procuratore della Repubblica, «che la legge già da tempo individua come i responsabile dei rapporti con la stampa», prosegue Gatta, al quale la riforma impone il divieto di “indicare pubblicamente come colpevole” persone indagate o imputate la cui responsabilità non sia stata accertata con sentenza di condanna definitiva. In più, si vuole mettere fine alle comunicazioni ufficiose che la procura era solita fare a favore di alcuni giornalisti, imponendo due canali ufficiali: il pm è tenuto a fornire informazioni sui procedimenti penali solo tramite comunicati ufficiali e conferenze stampa. Queste ultime devono essere organizzate dopo aver specificato le motivazioni in un atto apposito che deve essere reso noto. Inoltre, l’attenzione ai termini utilizzati deve riguardare anche tutti i provvedimenti adottati dalla magistratura, ad eccezione dei provvedimenti che contengono la “decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato” o degli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza” della persona indagata o imputata.
Tutela o censura? – La riforma è entrata in vigore da un mese e ha letteralmente spaccato in due l’opinione di alcuni esponenti di stampa e magistratura. Il neoeletto presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, in un’intervista rilasciata a Il Fatto Quotidiano, ha parlato di «norma spropositata» perché «la pubblicità del processo e dell’azione penale è uno dei cardini della civiltà. Dove non c’è pubblicità non c’è democrazia». Il presidente prosegue poi puntando il dito contro le trasmissioni televisive a carattere non giornalistico, che a suo parere «vedono la presunzione di innocenza massacrata». Anche il giornalista del Corriere della Sera Luigi Ferrarella parla della riforma nei termini di un «controsenso incomprensibile», dedicando un lungo commento della faccenda sul sito Media Laws. Contrario anche Giancarlo Caselli, procuratore volto chiave della lotta ai reati di matrice terroristica e mafiosa fino agli anni ’90, che in un’intervista rilasciata ad Articolo 21 mette in guardia su un aspetto: il rischio della riforma è di accentuare la differenza tra detenuti considerati di serie A e di serie B. Caselli in proposito parla di rafforzamento di «una grave asimmetria che caratterizza il nostro sistema penale: la compresenza di due distinti codici, uno per i cittadini “comuni” e uno per i “galantuomini”». Di conseguenza, sarebbero solo i secondi a beneficiare della riforma vedendosi riservare un «approccio più soft, in particolare misurando l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione (o improcedibilità)» aggiunge Caselli. Di tutt’altro parere Armando Spataro, in pensione da dicembre 2018 dopo essere stato a capo della Procura di Torino per quattro anni, che a Il dubbio dice di considerare la riforma come il giusto argine di una «febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi talk-show e attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati». Per Spataro i responsabili della fuga di notizie sono i magistrati: il risultato sono «informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore». In sostanza, la riforma metterà fine «al protagonismo individuale – afferma Spataro – connesso alla convinzione di alcuni pm di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare».
Evitare allarmismo – «Il diritto di cronaca è fuori discussione, così come il ruolo dei giornalisti». Gian Luigi Gatta modera gli animi e ricorda come sia fondamentale evitare «toni allarmistici ed espressioni riduttive». Il consigliere della ministra della Giustizia precisa che la riforma è il risultato dell’applicazione di una direttiva europea che ha l’obiettivo di tutelare i diritti delle persone che si trovino coinvolte in un processo penale con il ruolo di indagati e poi, in caso di rinvio a giudizio, di imputati. «Non va dimenticato che il processo penale può stritolare chi vi è sottoposto e rovinare vite, famiglie e percorsi professionali – prosegue il professore – con la presunzione di innocenza bisogna fare sul serio». A chi teme che la riforma conceda troppa discrezionalità ai procuratori nella scelta di cosa sia una notizia di interesse pubblico, e quindi comunicabile, Gatta risponde: «Non c’è un rischio di confusione dei ruoli: la rilevanza pubblica dei fatti è un metro di valutazione tanto del procuratore quanto del giornalista: indica al procuratore se, quando e quanto diffondere notizie altrimenti segrete, a tutela delle indagini e dell’indagato», così come indica al giornalista quando, nell’esercizio del diritto di cronaca, può in modo giustificato raccontare fatti che sono oggettivamente lesivi dell’altrui reputazione, ma che non sono ancora stati definitivamente accertati e potrebbero non esserlo mai, oppure risultare del tutto destituiti di fondamento».