Quando il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato di «patrimonio culturale che il resto del mondo ci invidia» strizzava l’occhio alla tradizione. I licei italiani sono ancora tra le migliori scuole d’Europa. Tuttavia, nella sua visione, il futuro del Paese passerà attraverso la svolta digitale e ambientale. Competenze tecniche dunque, che richiedono di superare la gerarchia tra scuole superiori che c’è sin dalle riforme di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Nell’italia di Draghi e del nuovo ministro Patrizio Bianchi, il futuro è degli istituti tecnici (Itis).

Il discorso di Draghi – Parlando ai senatori, Draghi snocciola qualche dato: «È stato stimato in circa 3 milioni nel quinquennio 2019-2023, il fabbisogno di diplomati negli istituti tecnici nell’area digitale e ambientale». I progetti di trasformazione che il capo dell’esecutivo ha annunciato sono infatti imperniati sul concetto di “transizione”, sia ecologica, sia nell’informazione. Un cambiamento continuo del mercato del lavoro, che richiederà ai giovani competenze sempre nuove e sempre più specifiche. I membri del precedente governo avevano infatti destinato 1 miliardo e 500mila euro agli Itis, cioè 20 volte il finanziamento che normalmente percepivano in tempi di pre-Covid. Quei soldi non cambieranno destinazione, ma «senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate».

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Istituto tecnico di Forlì

Il passato recente –  La visione di Draghi ha un precedente recente: la legge 107 del 2015, la Buona Scuola del governo Renzi, che regola ogni istituzione scolastica di primo e secondo grado. L’allora ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli aveva cercato un’integrazione migliore tra le competenze fornite dalla scuola e le esigenze del tessuto economico-sociale del territorio in cui il singolo istituto opera. Tra le novità introdotte: l’alternanza scuola-lavoro su modello tedesco e la progressiva autonomia degli istituti. Per gli Itis l’ammontare di ore di alternanza è stato fissato a 150 l’anno (60 più dei licei). Gli Itis dispongono anche di una quota di autonomia maggiore: ogni istituto può discostarsi dal piano di studi nazionale del 20%, a cui si aggiunge nel triennio superiore un margine di variazione tra il 30 e il 35% dell’orario a beneficio degli insegnamenti che tengano conto delle specificità dei territori in cui le scuole operano. Oggi gli istituti tecnici si dividono in due settori (economico e tecnologico), per un totale di 11 indirizzi circa 830mila studenti (dati Miur 2019).

Le prestazioni degli Itis –  Cosa c’è da «innovare»? Per sapere cosa non va, bisogna ripartire dai dati Pisa-Ocse del 2018: l’indagine a cadenza triennale che raccoglie le prestazione degli studenti quindicenni in lettura, matematica e scienze nei 79 Paesi con l’economia più avanzata. In Italia il target sono i quindicenni, cioè coloro che si trovano ai primi anni della scuola superiore. Complessivamente l’Italia è risultata sotto la media dei Paesi Ocse in ognuno dei tre parametri. Ma ci sono delle differenze areali e per tipi di scuola. Gli studenti dei nord-est e nord-ovest sono andati meglio di quelli del sud e le prestazioni peggiori sono arrivate da chi frequenta l’Itis o l’istituto professionale. Una zavorra quindi? Forse no, dato che a quell’età la scuola superiore è appena cominciata ed è quindi presto per valutare l’impatto degli istituti sulle competenze fornite. Tuttavia, il test Invalsi del 2019, cioè l’ultima valutazione nazionale prima del Covid e obbligatoria per l’esame di maturità scritta, certifica che gli studenti che escono da un percorso tecnico vanno peggio rispetto ai colleghi liceali nelle materie di italiano, matematica e inglese. Secondo l’istituto di valutazione Invalsi (che fa capo al Miur), il motivo sembra essere legato alle differenze socio-culturali tra le famiglie che scelgono gli Itis e quelle che scelgono di iscrivere i propri figli ai licei. Le prime sarebbero disposte a investire meno sull’istruzione dei figli, e ciò accade quando è minore l’importanza data all’istruzione. Questo ha un impatto diretto sulle prestazioni dei ragazzi.

Le nuove iscrizioni – Come in Francia e Germania, che pure Draghi ha preso a modello, in Italia c’è ancora una gerarchia tra gli ordini di scuola secondaria. I licei continuano a essere la scuola della classe dirigente (o di chi vi aspira a entrarvi) e il 58% degli iscritti alle classi prime nell’anno 2021/2022 ha scelto questo percorso. Gli Itis hanno tenuto con il 20,3% di scelte (in aumento rispetto al 19,6% dell’anno precedente). La differenza si assottiglia in regioni come il Veneto (48% liceali, 38% tecnici), la Lombardia (36 a 42) e l’Emilia Romagna (36 a 48,2).

Gli Istituti tecnici superiori – Dopo avere citato gli istituti tecnici, Draghi si è concentrato sulla ricerca, in particolare nelle materie Stem (Science, Technology, Engeneering, Mathematics). Il pensiero dichiarato è che solo una buona ricerca può portare al miglioramento della vita, che appunto passa da una maggiore cura dell’ambiente e dal digitale. Anche qui il presidente del Consiglio si trova allineato con le posizioni dell’Unione Europea espresse nei vari programmi quadro per la formazione (si è da poco concluso l’ultimo: Horizon 2020). Questo tipo di ricerca è però appannaggio di istituzioni di formazione terziaria come le università e i centri di ricerca superiori. Stupisce quindi il mancato riferimento agli Istituti tecnici superiori (Its). Pochi sanno che gli atenei e le accademie non sono le uniche realtà di formazione a livello terziario riconosciute dal nostro ordinamento. Secondo il Miur: gli Its «rappresentano il segmento di formazione terziaria professionalizzante non universitaria che risponde alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche per promuovere i processi di innovazione». Si tratta di percorsi (di solito biennali) incentrati su una formazione di tipo tecnico-pratico sul campo e in sinergia con le aziende sui territori. Benché rispetto alle lauree triennali gli Its diano un ritorno occupazionale molto più elevato (73% di laureati triennali occupati entro il prima anno dalla laurea contro l’82% di quelli usciti dagli istituti tecnici superiori), sono scelti solo dal 2% di chi ha un diploma di scuola superiore.