Un relitto con tesoro. Medico. A bordo del Pozzino, l’imbarcazione greca affondata nel 130 a.C a largo della costa Toscana, non c’erano metalli preziosi, ma medicinali. A ipotizzarlo, negli anni Novanta, furono le ricerche subacquee di Enrico Ciabatti. Oggi, a vent’anni dal ritrovamento, un gruppo di ricercatori toscani si spinge più in là. Le pastiglie contenute nei tubetti di stagno sono un antico collirio. E’ questa la tesi della ricerca pubblicata dai ricercatori sulle pagine della prestigiosa Pnas, la rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti.
Un risultato raggiunto attraverso un’analisi dettagliata delle ultremillenarie pastiglie. Spettroscopia a raggi X, a infrarossi, gascromatografia e spettrometria di massa. «Il principio attivo delle pasticche è costituito dai carbonati di zinco», spiega Erika Ribecchini, del dipartimento di chimica dell’Università di Pisa. Insieme a lei, nel team, ricercatori di archeologia, botanica e geologia.
«Insieme allo zinco – continua Ribecchini – ci sono anche altre sostanze usate come conservanti. La resina di pino, a esempio, le fibre di lino, l’amido». Proprio la presenza dello zinco ha fatto avanzare l’ipotesi che le pastiglie fossero l’equivalente greco del nostro collirio. Una tesi confermata non solo dalla chimica, ma anche dalla letteratura. Nella sua Naturalis Historia, lo scrittore romano Plinio il Vecchio scrive del collirio come di una cura utile per gli occhi.
«Lo zinco ha alcune proprietà che lo rendono utile ancora oggi in oftalmologia e dermatologia. È probabile che le pasticche venissero usate per applicazioni esterne sugli occhi», spiega Ribechini. Nomen omen. La parola collirio, in greco, significa piccolo panetto tondo. Un cerchio, appunto. Come una pastiglia.
Susanna Combusti