sharingggggggggggggggggggggggggggggggggggCi sono articoli che, più di altri, quando compaiono su un social network sono condivisi migliaia di volte: diventano, in altre parole, virali. Non succede per tutte le notizie. Ma da che cosa dipende la viralità di un contenuto? Da quanto ci fa pensare a noi stessi o da quanto migliora le nostre relazioni, facendoci apparire in una luce migliore. A dirlo sono Christin Scholz ed Elisa Baek, ricercatrici dell’università della Pennsylvania, in due studi coordinati e pubblicati sulla rivista Psychological Science e su quella dell’Accademia americana di scienza (Pnas). Per arrivare a queste conclusioni, hanno monitorato l’attività cerebrale che spinge gli utenti a leggere e condividere le notizie, individuando quali aree del cervello entrano in funzione in questo processo.

Tre aree del cervello – Non è il primo tentativo di studiare e analizzare il fenomeno della “condivisione” da un punto di vista psicologico. Ma in questo studio le ricercatrici si sono soffermate su tre zone cerebrali in particolare. C’è una parte del cervello che valuta razionalmente quanto vale una determinata notizia. Una seconda determina se una notizia è importante per la nostra vita personale, mentre la terza è quella che usiamo per capire le motivazioni degli altri. E sono queste ultime due aree che si accendono quando decidiamo di condividere una notizia. «La gente è interessata a leggere o condividere contenuti legati alle proprie esperienze personali o alla loro percezione di chi sono o vogliono essere – commenta Emily Falk, primo autore di entrambi gli studi – . Condivide cose che possono migliorare le proprie relazioni, farli sembrare brillanti ed empatici»

Inconscio – Dall’attività combinata delle tre aree del cervello dipende la probabilità che una notizia possa diventare virale o meno. Ma la novità introdotta da questo studio è l’attenzione all’inconscio nel procedimento di condivisione di un articolo. Perché ci sono sempre dei motivi inconsci e involontari, come spiegano le due ricercatrici: «Le persone non sempre sono consapevoli dei loro motivi reali, oppure si vergognano a dire che hanno condiviso una cosa perché li faceva apparire migliori». Fotografare l’attività cerebrale, come hanno fatto Scholz e Baech, permette allora non di leggere nel pensiero delle persone ma di vedere quale area del cervello si accende e si attiva di fronte a una determinata notizia.