Riprendono i figli piccoli mentre piangono o sono arrabbiati, durante il cambio del pannolino, il bagnetto o il riposino. Sono i cosiddetti family influencer, genitori che raccontano la quotidianità familiare sui social in brevi video, reel e dirette, con il rischio dell’esposizione totale e l’annullamento della privacy dei minori. È per questo motivo che la onlus Terre des Hommes (che si occupa di proteggere i diritti dei bambini), l’istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iad) e la scuola in media, comunicazione e spettacolo (Almed) dell’università Cattolica del Sacro Cuore hanno lanciato l’allarme con lo studio Protagonisti consapevoli? La tutela dei minorenni nell’era dei family influencer.

Family influencer (foto generata con AI)
I dati della ricerca – Dalla ricerca è emerso che, su 20 profili e 1334 pubblicazioni analizzate, i minori appaiono in un contenuto organico su due e in uno sponsorizzato su quattro. Per un terzo delle pubblicità, invece, sono parte attiva: presentano i prodotti, li promuovono o li scartano. Nella maggior parte dei casi, manca la privacy. Niente riprese alle spalle, immagini pixellate o emoji a coprire il viso. Questi accorgimenti sono adottati solo nel 7% del materiale postato online e la soglia si abbassa al 2% se si considerano gli advertising. Pochissimi bambini – data la tenera età – si oppongono con consapevolezza alle riprese e i più esposti, quasi l’80%, sono quelli tra gli 0 e i 5 anni. «Quando un genitore trasforma il proprio figlio in parte di un’attività commerciale, assume di fatto un doppio ruolo: quello di datore di lavoro e di genitore, con il rischio di compromettere la relazione di fiducia e sicurezza su cui si fonda l’infanzia. Senza contare che la presenza online li espone a potenziali rischi di adescamento e pedopornografia», ha spiegato Federica Giannotta, responsabile advocacy e programmi Italia di Terre de Hommes.
Le tutele e il disegno di legge – «Il contenuto dell’advertising dovrebbe essere previamente valutato e approvato dalla direzione provinciale del lavoro, considerando il monte ore di lavoro, il ruolo investito dal minore e la tipologia di prodotto», si legge sul sito della onlus. La richiesta si allarga non solo nel caso in cui il bambino o la bambina sia protagonista, ma anche presente nei contenuti sponsorizzati. La questione è da inquadrare all’interno del disegno di legge bipartisan (sostenuto da PD e Fratelli d’Italia) per la tutela dei minori nella dimensione digitale, al momento al vaglio del Senato. Un’iniziativa orientata a cambiare in modo radicale la presenza di bambini e adolescenti nelle pubblicità, imponendo tra le altre strette la verifica dell’età dell’utente e la validità dei contratti che coinvolgono i minori. «I social media hanno creato opportunità lavorative prima inedite che consentono di trovare nuovi equilibri fra lavoro e vita privata – ha fatto notare Elisabetta Locatelli, ricercatrice dell’università Cattolica –. Questo però rischia di comportare, come emerso nei dati di ricerca, una sovraesposizione dell’infanzia e dell’adolescenza, di non definire in modo ottimale i confini fra vita personale e professionale o di non tutelare adeguatamente i diritti. È per questo necessario regolamentare e fare formazione così come continuare ad analizzare questi fenomeni».




