Esiste un nuovo tipo di accumulo compulsivo: quello digitale. Sottotipo della più comune disposofobia, il digital hoarding è il nome attribuito all’urgenza di ammassare i file fino al punto da perdere i benefici ed essere circondati dal disordine. La motivazione con cui gli accumulatori digitali si giustificano è fin troppo familiare: potrebbe sempre servire. Non diversamente dagli accaparratori compulsivi classici, cioè di oggetti fisici, questi sono convinti che, prima o poi, le migliaia di email, finestre aperte sul browser e fotografie nella galleria dello smartphone torneranno utili.

Recente, ma da non sottovalutare – Il primo caso documentato è del 2015, quando la rivista medica olandese BMJ ha pubblicato uno studio su un uomo di 47 anni che scattava ogni giorno migliaia di fotografie e passava tutto il giorno a riordinarle, senza nemmeno guardarle. Con l’incremento dello spazio di immagazzinamento sui dispositivi elettronici, i backup e i cloud, si sono moltiplicate le occasioni in cui la naturale tendenza alla conservazione può sfociare in qualcos’altro, con rischi anche gravi per la salute mentale.

Sommersi – Le persone affette dal disturbo di accumulo digitale finiscono schiacciate dalla mole di informazioni personali e lavorative: ansia e stress sono i primi segni. Oltre alla difficoltà nel ritrovare i documenti veramente utili, si crea infatti una sensazione di impotenza. Come riscontrato da Nick Neave, direttore del gruppo di ricerca sull’accumulo della Northumbria University di Newcastle (Inghilterra), il digital hoarding fa gli stessi danni di quello fisico. In uno studio pubblicato all’inizio di quest’anno, il suo team ha rilevato che la difficoltà principale di un campione di persone che lavorano con il computer era liberarsi delle email, con una media di immagazzinamento di oltre 300 lette e 100 non lette. E se anche molti sono consapevoli della mole che cresce, il flusso continuo non lascia scampo.

Diffusione – Nel tentativo di capire quale sia il confine tra l’essere oberati dal materiale e la scelta di conservarlo, però, la professoressa di tecnologia dell’informazione Jo Ann Oravec, della University of Wisconsin-Whitewater (Stati Uniti), ha sostenuto che non è determinante la quantità di informazioni, ma il senso di controllo che se ne ha. Certo, più crescono, più è difficile mantenerlo: i suoi studenti le hanno confessato nausea e squilibrio anche solo nella gestione delle foto sul telefono. Le compagnie tecnologiche, sostiene Oravec, dovrebbero ripensare alla facilità con cui permettono questo stoccaggio senza informare periodicamente gli utenti, anche se la responsabilità della gestione dei beni digitali è prima di tutto dei loro possessori. Occorre fare, con dei check up periodici delle informazioni utili e inutili, un investimento per la propria salute mentale, che richiede la nostra attenzione non meno di quella fisica.