Applaudiamo perché lo fanno gli altri. Una ricerca dell’Università di Uppsala in Svezia confermerebbe quello che si è sempre sospettato: la risposta del pubblico nei confronti di uno spettacolo avrebbe più a che fare con il conformismo delle persone sedute in platea piuttosto che con la bravura di chi recita su un palco.

Secondo Richard Mann, un matematico dell’ateneo svedese, l’applauso è insomma qualcosa di simile ad una pandemia: il contagio inizia da una o poche persone e poi si diffonde e si propaga finché tutti sono “infetti”. Un po’ come avviene con gli sbadigli.

La scoperta è stata possibile grazie a una serie di esperimenti su un gruppo di studenti dell’Università di Leeds. Anche tra colleghi e davanti a una presentazione accademica, l’applauso scattava sempre per lo stesso motivo: solo quando qualcuno iniziava a battere le mani. In particolare, il momento decisivo è quando almeno il 50 per cento del “pubblico” sta già applaudendo.

Inoltre Mann e i suoi colleghi hanno osservato che le persone non cominciano ad applaudire in base a ciò che vedono, ma rispetto a ciò che sentono: “Non devi vedere le persone applaudire per essere infettato, ma basta solamente ascoltarle”, ha spiegato Mann.

E anche le “dimensioni” non contano. L’applauso per una presentazione pessima potrebbe essere lungo quanto quello per un ottimo discorso. “Bisogna stare attenti ad interpretare quando efficace sia una performance facendo riferimento alla lunghezza dell’applauso finale”, ha concluso il matematico svedese. Le interazioni casuali fra il pubblico che portano all’applauso possono infatti non riguardare per nulla la qualità del discorso ascoltato.

Enrico Tata