twitter-moments-aperto-tutti-iscrittiTwitter? Un “must have” per gli addetti ai lavori, ma un social network poco gratificante per tutti gli altri. Ecco come si potrebbe riassumere in un tweet il problema che ha azzoppato la piattaforma di microblogging che, a dieci anni dalla sua nascita, sta per essere venduta al miglior offerente. Stando alle ultime indiscrezioni, sono almeno in quattro a corteggiarlo: Microsoft, Google, Salesforce e Disney. Il bottino sono i suoi 313 milioni di utenti unici al mese e le potenzialità in fatto di streaming video. Ma comprare Twitter significa anche inglobare un social che non è stato in grado di trasformarsi in un impero e che anzi stenta a trovare una direzione sostenibile dal punto di vista economico.

Fino al 2012, Facebook e Twitter erano concorrenti che giocavano ad armi pari. L’arena dei social apparteneva a loro, con Google + che arrancava per stargli dietro. Poi sono arrivati Instagram e Snapchat e, mentre Mountain View diventava sempre più irrilevante, anche Twitter ha iniziato a perdere colpi. Nel 2012 la società registrava una perdita di 79,4 milioni (con un giro d’affari di 317 milioni), nei primi nove mesi del 2013 il rosso era salito a 134 milioni. Le rendite pubblicitarie hanno iniziato a calare e lo stesso hanno fatto gli utenti attivi: tra 2013 e 2015 negli Stati Uniti sono scesi del 33 per cento. Gli iscritti crescono (poco), ma i tweet no: nel 2014 in media erano 550 milioni ogni mese (con un picco di quasi 700 milioni nel periodo dei Mondiali), a gennaio 2016 sono stati poco più di 300 milioni.

Così si è iniziato a parlare di Twitter come del malato del web. Mentre Facebook non ha mai smesso di crescere, inglobando i competitor e introducendo nuove funzionalità di grande successo, il social network dei 140 caratteri le ha provate tutte – dai video in diretta di Periscope alle raccolte di tweet – senza riuscire a sollevare le proprie sorti. Perché? Il fatto è che Twitter, come il mitologico Giano, ha due volti: quello social e quello di aggregatore di news in tempo reale. Questa duplicità non è però un vantaggio, ma un handicap.

Twitter come social non funziona perché non gratifica gli utenti. I neo-iscritti non devono solo imparare il linguaggio e il funzionamento di una nuova piattaforma, ma anche sgomitare per non sentirsi esclusi. Twitter non è il posto giusto per parlare di sé, né per conversare con gli amici: è un luogo virtuale di commento, cronaca e attivismo. L’algoritmo su cui si basa fa sì che gli utenti siano virtualmente invisibili finché non riescono a coltivare un buon numero di followers (veri). Per questo piace a celebrità, politici e brand: il modello è funzionale alle loro esigenze – comunicare senza filtri con un vasto pubblico – ma non a quelle di un utente normale. Il risultato? Tanti si iscrivono e poi non cliccano mai più su login.

In quanto aggregatore di news, Twitter ha tanti punti di forza. Basta pensare a quanto si sia rivelato efficace in occasione di eventi collettivi di vasta portata – dal golpe in Turchia alle Olimpiadi. Quando si guarda a Twitter come a una piattaforma in cui gli iscritti sono produttori di contenuti e non prodotti da piazzare sul mercato della pubblicità, tutto torna. Tranne i conti: il business model di Twitter è ancora quello di un social network che vende l’attenzione dei suoi utenti a chi ne ha bisogno per farsi conoscere. Il cortocircuito si può risolvere solo a una condizione: decidere cosa deve fare Twitter da grande.

Chiara Severgnini