«Se non ci fosse la Casa Ail di Bari a ospitare mio padre ogni volta che, per curare il linfoma, deve andare da Tricase fino a lì, per lui affrontare questa malattia sarebbe stato devastante. Non solo a livello fisico, ma anche mentale», commenta con un filo di voce Giacomo Luigi Turco. Il padre, Emanuele (63 anni), poco prima dell’estate del 2019 ha scoperto di soffrire di una rara tipologia di linfomi non Hodgkin, chiamata “micosi fungoide”. Una malattia complicata da curare e che può creare gravi disagi a chi ne soffre, ma che l’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma cerca tutti i giorni di rendere almeno sul piano logistico meno pesante, ospitando gratuitamente nelle sue “Case” i pazienti affetti da patologie del sangue e chi si prende cura di loro.

«Si tratta di una malattia linfoproliferativa nella quale i linfociti clonali – ovvero quelli che formano una famiglia di cellule patologiche – in un primo momento scelgono la pelle come propria casa. Poi si verifica una progressione a livello cutaneo, nel senso che si addentrano nel sottocute, e allora si possono formare delle placche», spiega il primario del reparto di ematologia di Tricase, Vincenzo Pavone. La malattia, un tipo di linfoma cutaneo a cellule T, nella fase iniziale si manifesta con macchie persistenti sulla pelle. «L’effetto più immediato e frequente è il prurito, che diventa più o meno intenso in base all’entità delle macchie stesse. Grazie ai farmaci e alla terapia, però, anche questo fastidio sta scomparendo, così come i segni sul mio corpo», racconta Emanuele Turco.

Ma non è facile indagare con razionalità sugli effetti di qualcosa che ci riguarda così da vicino, come ammette il paziente: «So che c’è gente che ci convive per tutta la vita, ma dipende da come si evolve la malattia. Io ho un’idea dei possibili effetti futuri, ma non ho voluto approfondire troppo cosa potrebbe accadere per via dei miei stati di ansia». Nella sua fase avanzata, la micosi fungoide può interessare altre strutture del sistema immunitario, «come i linfonodi, la milza o il midollo osseo», spiega il dottor Pavone. «Nell’ultimo stadio della malattia di solito i farmaci non bastano più: si tende a utilizzare farmaci immunoterapici, tra cui alcuni anticorpi monoclonali che riescono a identificare il linfocita patologico e a distruggerlo, oppure una terapia topica, come quella della fotoferesi».

Soprattutto a causa della pandemia da Covid-19, sono trascorsi più di 48 mesi dalla comparsa dei sintomi prima che Emanuele Turco potesse bussare alla porta di un dermatologo. Le difficoltà, però, sono andate ben oltre la diagnosi, perché per potersi curare era necessario sottoporsi alla fotoferesi extracorporea, che è presente in poche strutture convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale in tutta Italia. Si tratta di una terapia usata di norma come prevenzione del rigetto d’organo e che si è rivelata efficace anche nel trattamento del linfoma cutaneo a cellule T, di cui la micosi fungoide rappresenta una variante. Per poter accedere alla cura, Turco deve allontanarsi significativamente dalla sua residenza.

La terapia – soprattutto nella fase iniziale – prevedeva due viaggi a settimana con destinazione “Policlinico di Bari”, a oltre 200 km di distanza dal comune salentino di Tricase. «La prima volta sono andato con Giacomo, entrambi giorni. Ci siamo svegliati nel cuore della notte e siamo andati fin lì in macchina per poter fare la cura al mattino», racconta Turco. Ma a lungo andare non era sostenibile: per i primi tempi il paziente aveva provato a fare il viaggio di andata e ritorno in giornata in autobus, evitando di guidare. Anche così, però, rimaneva comunque la stanchezza da sveglia presto e da postumi della terapia.

Per evitare questo tipo di stress, nonché i rischi derivanti dal mettersi al volante stanco e assonnato, Turco si è rivolto all’Ail. «Noi abbiamo un solo obiettivo: migliorare la qualità di vita dei pazienti. Sono persone che devono affrontare un percorso difficoltoso che è quello della malattia, per questo cerchiamo di dare loro un aiuto, di farglielo pesare di meno», racconta Chiara Giacopino, referente delle Case Ail della sezione di Bari.

E lo fanno proprio tramite queste strutture, degli alloggi creati per ospitare pazienti onco-ematologici insieme a familiari o caregivers quando si allontanano dalle loro residenze per le terapie. Le Case Ail si trovano, non a caso, vicino ai centri ematologici: «A Bari ce ne sono due e sono tutte nei pressi del Policlinico. È una scelta che è stata fatta per permettere anche a chi arriva coi mezzi pubblici di accedere senza difficoltà alla Casa prima e dopo la terapia», continua Giacopino.

Senza poter godere di questo beneficio, per Emanuele Turco sarebbe stato molto più difficile curarsi con costanza: «Non riesco nemmeno a immaginare come sarebbe andata – ammette il figlio -. Escludendo l’opzione di pagarsi tutte quelle notti fuori casa di tasca sua, probabilmente avrebbe dovuto continuare a svegliarsi alle 4 del mattino, trascorrere tre ore sull’autobus per Bari, fare la terapia, fare altre tre ore di viaggio in autobus per rientrare a casa. E poi ripetere tutto il giorno dopo. Lo stress sarebbe stato tremendo e non fa bene per malattie come la sua».

Nella sezione del capoluogo pugliese ci sono 20 posti a disposizione di pazienti e accompagnatori, ma l’Ail di Bari tende la mano a chi ha bisogno di fermarsi in città per fare una terapia anche quando nelle Case tutti i letti sono occupati: «Noi abbiamo deciso di sostenere i pazienti nei casi in cui non riusciamo a ospitarli nelle nostre strutture, per quanto questo accada raramente. In questa eventualità, comunque, ci facciamo noi carico delle spese di una notte in un B&B o in qualche struttura che nel tempo è diventata “amica”», racconta Giacopino.

Non manca, però, la consapevolezza che il caso è fuor di norma, e che la realtà è quella di un Paese dove oltre 3 milioni di italiani rinunciano a curarsi soprattutto per motivi economici e dove fino al 79% della popolazione del Sud e delle isole si sposta in altre regioni alla ricerca di centri di eccellenza: «Io sono grato alla sanità pubblica e all’Ail, ma ci sono troppo persone che non hanno avuto e non hanno le occasioni che ha avuto mio padre. Soprattutto al Sud, dove fin troppo spesso la gente si sente fortunata se riesce a farsi curare vicino casa», chiosa Giacomo Turco.