E’ morto Paolo Rossi. L’eroe del mondiale italiano dell’’82 e della storica tripletta al Brasile se ne è andato nella notte del 9 dicembre. Ne ha dato la notizia la moglie Federica Cappelletti con un post su Instagram. Ad accompagnare la foto della coppia la didascalia “per sempre”, con un cuore rosso. Il calciatore, 64 anni, era da tempo malato di un tumore ai polmoni. Da Zoff a Collovati e Conti arrivano i ricordi commossi della squadra che regalò la terza stella alla maglia azzurra. Rossi se ne va a quasi dieci anni esatti dalla morte di quel Mister Bearzot che contro tutto e tutti lo convocò al mondiale spagnolo dopo lo scandalo del Totonero.

Gli inizi – I primi calci al pallone da bambino nel Santa Lucia, poi la giovanile della Juventus. Ma la luce di Rossi ci mette un po’ ad accendersi e il team torinese lo manda al Como per farsi le ossa. Qui i primi minuti in Serie A, dove il fisico esile lo costringe lontano dalla ribalta. E’ solo nell’estate del ’76 che Rossi, imbeccato da mister Gibì Fabbri, inizia la scalata che lo porterà ad essere Pablito. E’ in quell’anno che l’attaccante di Prato approda al Lanerossi Vicenza. In un anno la trascina dalla B alla massima serie con più di venti reti. La stagione successiva i biancorossi arrivano un passo dietro della Juventus. Eroe di quella fantasmagorica impresa, Paolo Rossi si laurea capocannoniere con 24 gol. Un risultato che basta e avanza ad Enzo Bearzot per la convocazione ad Argentina 1978. Qui le prime tre reti azzurre e, dalla penna di Giorgio Lago, un giornalista de il Gazzettino , il soprannome iconico di Pablito.

Premi e guai – Dopo il mondiale argentino, dove gli azzurri combattono fino alle semifinali, il curriculum di Rossi è un tripudio di premi: Il mondiale nel 1982, il Pallone d’oro, gli scudetti con la Juve, la Supercoppa Uefa e la Coppa delle coppe. E i gol, tanti, che continua a segnare fino al 1987, quando chiude la carriera a Verona. Ma non si può capire Rossi e tutta la sua carriera, senza un salto all’indietro. Per la precisione, al 23 marzo del 1980. E’ una domenica di campionato come tutte le altre, ma ad aspettare Rossi e compagni fuori dal campo c’è la Guardia di Finanza che li scorta a Regina Coeli. Imputato insieme a Della Martira e Zecchini di un giro di scommesse su partite truccate, Paolo si proclamerà sempre innocente. Innocenza che sarà riconosciuta solo cinque anni dopo e che non gli risparmia la squalifica dai campi per due anni.

Disgusto e rinascita – Deluso, Rossi si ritira nel silenzio mentre lo scandalo, denominato Totonero, sembra sul punto di far crollare il calcio italiano. I giorni senza pallone passano lentamente per l’attaccante che valuta l’addio allo sport. A detta sua: «Provavo disgusto per il calcio. Ho pensato di andar via dall’Italia, di smettere». Fino ad un altro marzo, quello del 1981, quando Giampiero Boniperti a sorpresa chiama l’attaccante. Lo vuole a giocare nella Juve. Segue un anno di allenamenti con il team torinese senza giocare, un anno frustrante. È il 1982 quando a squalifica finita Rossi entra in campo e segna all’esordio. «Rossi è quello di sempre», sentenzia il mister Giovanni Trapattoni quando lo schiera dal primo minuto. Un altro paio di partite e arriva la chiamata di Bearzot: tra i convocati per Spagna 82 c’è anche l’attaccante di Prato.

Pallone d’oro – In terra Iberica Pablito segna sia all’Argentina di Maradona che al Brasile di Falcao (di Socrates e di Zico). Con sei gol nel corso del mondiale Rossi si incorona capocannoniere della competizione e vincitore del Pallone d’oro. L’1 luglio l’Italia batte la Germania, il 2 a 1 è ancora di Pablito. In un attimo l’Italia cancella il Totonero e si stringe intorno all’urlo del commentatore Nando Martellini. È il grido di gioia di un paese che dopo gli anni di piombo e i morti della strage di Bologna ha fame di piccole gioie e di normalità. La firma più bella su quel mondiale così importante è quella di un giocatore che appena un anno prima valutava l’addio al calcio giocato, lo stesso che aveva decretato: «Non mi vedrete più in nazionale».

Lo squalo – Veloce, agile ma poco fisico, Rossi non segnava di potenza, ma di intuizione. Uno squalo dell’area di rigore, che giocava con la palla ma soprattutto senza, nella previsione (profeticamente e puntualmente realizzata) di dove si sarebbe trovata la sfera. Dopo l’82 fuori dal Bel Paese diventa il carrasco do Brasil, il boia del Brasile. Quando nel 1989 ci torna per una competizione amichevole, in campo gli tirano bucce di banana. Nel 2002 ringrazia i brasiliani con il titolo dell’autobiografia, Ho fatto piangere il Brasile. In Italia, invece, Rossi è simbolo assoluto. Opinionista e commentatore di calcio in tv, scrittore di altri due volumi insieme alla seconda moglie Federica. Una bella famiglia, con l’ultima figlia nata nel 2012. Mai sopra le righe, tutt’altra risma rispetto alle popstar calcistiche di oggi. Molto pragmatico e poco spettacolare, proprio come quell’Italia che nel 1982 cancellò, insieme al Totonero, la stagione più dolorosa del dopo guerra.

Foto in evidenza: Eduardo Rafael, 1978