Pietro Mennea

Pietro Mennea (foto: ansa.it)

La più grande rimonta della storia dell’atletica cominciò a tre quarti della gara dei 200 metri. Era il 28 luglio del 1980, le Olimpiadi quelle di Mosca, la corsia la numero otto, e Pietro Mennea neanche doveva scendere in pista. Tutto sembrava congiurare contro la partecipazione alla gara che gli avrebbe regalato l’oro olimpico, l’unico di una carriera sia pure ricchissima di record e riconoscimenti. Cossiga aveva vietato al Coni di mandare la delegazione italiana ai Giochi, in segno di protesta contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa sovietica. Ma il Coni aveva disubbidito, formando la squadra. Allora il governo aveva vietato agli atleti militari di lasciare il Paese.

Ma Mennea aveva già fatto il servizio militare. Giunto a Mosca, non riuscì a qualificarsi per la gara dei 100 metri. Alla gara dei 200 ci si mise anche la sorte, assegnando a Mennea la corsia più scomoda, la più esterna, quella dove non vedi gli avversari e non hai punti di riferimento. Poi lo starter lanciò il colpo, e le cose continuarono ad andare male per una brutta partenza. Ma all’entrata del rettilineo il telecronista vide qualcosa di incredibile: Mennea “recupera… recupera… recupera… recupera… recupera…”. Fino a vincere la sua medaglia con l’indice alzato verso il cielo, unico atleta di tutta l’Olimpiade a non farsi rinchiudere subito negli spogliatoi dagli addetti alla sicurezza sovietici, ma a fare un giro dello stadio Lenin tra i pochi, esitanti, tricolori.

Il ragazzo di Barletta nato nel 1952 da mamma Vincenza casalinga e papà Salvatore sarto era così: capace di andare contro tutti a prendersi quello che voleva, ma a testa bassa, in silenzio, senza tragedie, senza dichiarazioni roboanti, ma continuando a correre. Quel ragazzino gracile a cui uno dei primi allenatori aveva detto di mangiare, non di correre, a 17 anni era già capace di sacrifici come scendere in pista per allenarsi il primo gennaio alle otto del mattino. Passato dalla marcia alla corsa, e dalla corsa al mito, vide anche un cambio di soprannome: da “Pieretto”, come lo chiamavano gli amici d’infanzia, a “La freccia del Sud”, come lo ricorderà la storia.

Nel romanzo di Teresa Ciabatti Adelmo, torna da me (2002), l’idolo del ragazzino di paese con la passione dell’atletica è proprio lui, Mennea. Il corridore consapevole che «non si cresce se, ma nonostante» (Massimo Gramellini).

Lucia Maffei