La «malattia professionale» dei calciatori ha colpito ancora. L’ultima vittima di Sla (sclerosi laterale amiotrofica), la malattia degenerativa che attacca il sistema nervoso, è stata Pietro Anastasi, storica bandiera della Juventus degli anni Settanta e vincitore degli Europei del 1968. Ma la morte del «Pelè bianco» apre nuove domande su una malattia strettamente correlata al gioco del calcio, che ancora non ha trovato risposte né cure efficaci. I colpi di testa potrebbero avere un ruolo incisivo, come ha evidenziato una ricerca dell’Università di Glasgow, ma serve la collaborazione della Fifa per avere una maggiore quantità di dati da poter studiare.

La morte di Anastasi – Pietro Anastasi è morto venerdì 17 gennaio a Varese, all’età di 71 anni. Solo tre mesi fa gli era stata diagnosticata la Sla: la «stronza», la malattia neurodegenerativa che lascia lucidi e coscienti, ma che distrugge lentamente i muscoli, i neuroni responsabili del movimento e uccide soffocando chi ne è affetto. «Pietro voleva andare in Svizzera e porre fine alle sue sofferenze con il suicidio assistito. Me lo chiedeva quando era già malato di tumore all’intestino, ma non sapeva ancora di avere la Sla», ha dichiarato la vedova del calciatore, Anna Bianchi. Grazie alla chemioterapia Anastasi aveva sconfitto il tumore, ma non era finita lì. «L’ho guardato negli occhi e gli ho detto: Sai cos’hai? E lui mi ha risposto: Sì, ho la Sla. Ed è rimasto a lungo in silenzio». Giovedì 16 gennaio Anastasi ha chiesto infine la sedazione assistita per morire serenamente in una clinica di Varese, ha raccontato il figlio Gianluca.

La denuncia – Davanti alla morte dell’ennesimo ex professionista del calcio, il magistrato torinese Raffaele Guariniello, già autore di uno studio epidemiologico sulla materia, è tornato ad accendere i fari sulla correlazione tra calcio e Sla: «Non si vuole criminalizzare il calcio, ma trovare il nesso – ha detto al Corriere della Sera -. Peccato non aver mai incontrato un pentito su questo fronte: la mafia li ha, il calcio no». Sono passati quasi vent’anni dalla morte della bandiera del Genoa, Gianluca Signorini (6 novembre 2002), ma niente sembra essere cambiato: la Sla rimane una malattia neurodegenerativa incurabile. La Fifa non è ancora disposta a collaborare per finanziare studi più approfonditi con una maggiore quantità di dati: «La ricerca va avanti, ma sul fronte calcio siamo fermi. Nel silenzio generale i calciatori continuano ad ammalarsi e morire», ha dichiarato Chantal Borgonovo, vedova di Stefano, attaccante della Fiorentina anni Novanta. La loro battaglia per sensibilizzare l’opinione pubblica ha portato il tema della Sla sulle prime pagine dei giornali, ma ancora non è abbastanza per sconfiggere la «malattia dei calciatori».

I numeri – Le denunce hanno trovato una conferma nello studio dell’Istituto Mario Negri di Milano (marzo 2019), il primo che abbia seriamente analizzato il fenomeno della correlazione tra calcio e malattie neurodegenerative. Su 23.875 calciatori che hanno militato nelle Serie A, B e C dalla stagione 1959/60 fino al 1999/2000 sono state contate 32 vittime. Salgono a 34, quasi un anno dopo, con le morti di Anastasi e l’ex difensore della Fiorentina, Giovanni Bertini (3 dicembre 2019, aveva 68 anni). Potrebbe non sembrare un numero consistente, se non si considerasse l’incidenza sul resto della popolazione: in media si registrano 1,7 casi ogni centomila abitanti, ma tra i calciatori la Sla ne colpisce quasi il doppio, 3,2 casi ogni centomila, che sale a 6 se si contano solo quelli di Serie A. E ancora, gli ex professionisti si ammalano in media 22 anni prima rispetto a tutti gli altri, intorno ai 43. Questa è l’unica evidenza scientifica a disposizione. Si cerca ancora la risposta.

La ricerca di Glasgow – Proprio in questi giorni si sta discutendo della decisione della Federcalcio scozzese di vietare i colpi di testa ai ragazzini sotto i 12 anni (misura già introdotta nel 2016 negli Stati Uniti). Il divieto, che dovrebbe essere introdotto entro la fine del mese di gennaio, segue le evidenze portate da una ricerca dell’Università di Glasgow dell’ottobre del 2019. Giocare a calcio a livello professionistico triplicherebbe il rischio di malattie neurodegenerative come Alzheimer, Sla e Parkinson, a causa dell’impatto dei colpi di testa nel corso della carriera. A influire non sarebbero i colpi forti, ma il totale degli impatti alla testa: se un giocatore colpisce la palla tra le 6 e le 12 volte a partita – senza considerare gli allenamenti – significa migliaia di volte in carriera. La ricerca è stata condotta su oltre settemila ex professionisti scozzesi nati tra il 1900 e 1976, e ha evidenziato una mortalità media per questo tipo di malattie di 3,5 in più rispetto al resto della popolazione: 5 volte in più per l’Alzheimer, 4 per la Sla e il doppio per il Parkinson.