La bandiera russa non potrà sventolare alle prossime Olimpiadi del 2020 a Tokyo e nemmeno in quelle invernali previste a Pechino nel 2022. La Wada, agenzia mondiale antidoping, ha deciso di squalificare la Russia da tutte le manifestazioni olimpiche e mondiali per quattro anni. Una sentenza storica per punire le reiterate procedure di infrazione delle leggi antidoping, coordinate dalle federazioni sportive nazionali, dal Ministero dello Sport, dai servizi segreti e dalla Rusada, l’agenzia antidoping del Paese. Una struttura ramificata messasi in moto soprattutto tra il 2011 e il 2015, in occasione dei Giochi Olimpici invernali del 2014, ospitati dalla stessa Russia nella città di Sochi.

Il provvedimento – La Wada, il cui comitato centrale si è riunito al Royal Savoy Hotel di Losanna la mattina del 9 dicembre, ha approvato all’unanimità la sanzione, annunciandola tramite un suo portavoce dopo la fine della riunione e con una successiva conferenza stampa, sposando così la richiesta del Comitato di Controllo della Conformità (Crc) arrivata lo scorso 26 novembre. La Russia ora può presentare entro 21 giorni il ricorso al Tribunale Arbitrario dello Sport di Losanna (TAS), a cui spetterà l’ultima parola sulla vicenda. Una pista che il premier Dmitry Medvedev invita a percorrere, lamentando un accanimento eccessivo nei confronti del suo Paese: «Il fatto che queste decisioni continuino a ripetersi e siano spesso applicabili a quegli atleti che sono stati già sanzionati, fa pensare a un’isteria anti-Russia che è diventata cronica». E se l’ipotesi ricorso viene incentivata anche da Svetlana Zurhova, deputata della Duma ed ex pattinatrice olimpica («Sono sicura al 100% che la Russia ricorrerà al Tas perché dobbiamo difendere i nostri atleti»), più pessimista si è dimostrato il capo della Rusada, Yuri Gamus: «Non abbiamo nessuna chance di vincere questo caso in tribunale». Non per questo però, tutti gli atleti saranno per forza penalizzati. Chi dovesse dimostrare la propria estraneità in carriera alle pratiche dopanti della macchina russa, sarebbe autorizzato a partecipare sotto una bandiera neutrale. La stessa misura già adottata nelle Olimpiadi invernali dello scorso anno a Pyeongchang, in Corea del Sud.

Craig Reedie, capo della Wada, l’agenzia mondiale antidoping

L’ultima spiaggia sprecata – Le motivazioni che hanno spinto la Wada a prendere una decisione senza precedenti nella storia dell’antidoping sono state illustrate dal suo presidente, Craig Reedie: «La sfacciata violazione, da parte delle autorità russe, delle condizioni poste per il reintegro della Rusada esigeva una risposta forte. Ed è quello che abbiamo fatto oggi. Alla Russia è stato permesso in ogni modo di mettere ordine in casa propria e riunirsi alla comunità internazionale antidoping ma ha scelto di continuare a ingannare e negare. Abbiamo così risposto nel modo più duro, proteggendo al contempo i diritti degli atleti russi». A febbraio la Wada aveva ottenuto dal Tribunale Antidoping di Mosca dati informatici e provette d’archivio che, teoricamente, erano state richieste per accertare la recuperata trasparenza degli organismi russi. Invece, nel materiale inviato sono state riscontrate delle incongruenze, tra i campioni di sangue e di urina prelevati e le schede degli atleti di riferimento, che sarebbero state occultate o corrette a posteriori. L’ennesimo tentativo di manipolazione e insabbiamento ha portato la Wada alla più drastica delle punizioni, vietando anche, nello stesso periodo, la partecipazione ai maggiori tornei sportivi internazionali dei dirigenti coinvolti e impedendo alla Russia di candidarsi per ospitare eventuali manifestazioni. Un brutto colpo per un Paese che stava valutando la possibilità di concorrere per le Olimpiadi estive del 2032 con San Pietroburgo o Kazan.

L’eccezione calcio – La sanzione della Wada non si ripercuoterà però sui prossimi Europei di calcio. La rassegna in programma la prossima estate sarà per la prima volta itinerante e avrà in San Pietroburgo una delle varie sedi per ospitare la prima fase a gironi. Come spiegato dal presidente onorario dell’Unione Russa di calcio e membro onorario Uefa e Fifa, Vyacheslav Koloskov, gli Europei di calcio non rientrano nella definizione di maggiore evento riguardo le regole dell’antidoping, anche perché organizzati dalla Uefa. Confermata così anche la finale di Champions League del 2021, sempre a San Pietroburgo, mentre per quanto riguarda le qualificazioni ai Mondiali in Qatar del 2022, la Fifa ha fatto sapere che «è in contatto con la Wada e l’Asoif, l’associazione delle federazioni olimpiche, per chiarire le conseguenze di questa decisione sulle competizioni calcistiche».

Julija Stepanova, mezzofondista russa dalla cui confessione è nata l’inchiesta che ha portato alla scoperta del doping di Stato

L’inchiesta partita dall’atletica – La scoperta del doping di Stato russo è partita da un’inchiesta sulla federazione d’atletica leggera, ormai squalificata dal 2015, in seguito a un documentario trasmesso dalla TV tedesca ARD, a firma del giornalista Hajo Seppelt, che si basava sulle preziose testimonianze di Vitalij Stepanov, dipendente della Rusada, e di sua moglie, la mezzofondista Julija Stepanova, che rivelarono di come i funzionari della federazione fornissero sostanze dopanti e permettessero di superare i test antidoping in cambio di una percentuale dello stipendio degli atleti. Da queste confessioni sono partite inchieste successive, condotte dalla Wada, che hanno portato alla scoperta della stessa pratica in altre discipline, con il benestare delle federazioni, del governo e anche di alcuni organismi internazionali. In particolar modo, fu il rapporto steso da Richard McLaren a far luce sull’apparato esistente, basandosi soprattutto sul pentimento e sulla confessione di Grigorij Rodchenkov, ex direttore del laboratorio di Mosca all’epoca dei fatti. Secondo quest’ultimo, durante le Olimpiadi di Sochi il meccanismo prevedeva due modalità distinte: la somministrazione agli atleti di una sostanza dopante di sua creazione non facilmente rintracciabile dai test, composta da tre steroidi anabolizzanti e addirittura da un liquore (Chivas per i maschi e Martini per le donne), e di un organizzato sistema per sostituire i campioni di urina. Lo scambio del campione positivo con quello negativo avveniva di notte attraverso un buco nella parte bassa del muro del laboratorio antidoping di Sochi, nascosto durante il giorno da un mobile di legno. Il foro circolare sul muro rendeva possibile lo scambio delle provette contraffatte con un “laboratorio ombra” adiacente. Secondo la testimonianza di Rodchenkov, che distrusse anche 1417 campioni di test antidoping per evitare la loro rintracciabilità, un terzo delle medaglie olimpiche ottenute dalla Russia a Sochi sono arrivate da atleti dopati. Non proprio poche per una nazione che ne conquistò ben 33 finendo prima nel medagliere. Una netta differenza con quanto avvenuto quattro anni prima, quando le medaglie furono appena 15 e con la sola undicesima posizione nella graduatoria generale.