C’era una volta il colombo, il telefono dell’antichità. Oggi però, per molti, è solo un piccione, l’uccello grigio e sporco che affolla le piazze d’Italia. Eppure, c’è chi ancora lo chiama con il suo nome: colombo viaggiatore. Tra questi ci sono i colombofili, appassionati che allevano questi animali come atleti, li addestrano con cura e li liberano per gareggiare su tutta la penisola. Nelle loro colombaie, riconosciute dalla Federazione Colombofila Italiana, nascono campioni capaci di volare anche 800 chilometri senza fermarsi, con un solo obiettivo: tornare al nido con la massima velocità..
La Federazione – A tenere le redini di questo mondo c’è Claudio Debernardi, presidente della Federazione Colombofila Italiana, che conta circa 1.800 iscritti. «È uno sport, chiamiamolo così, ma a correre è il colombo, non noi». La Federazione organizza i campionati, con le diverse specialità: velocità (fino a 300 km), mezzofondo (500 km), fondo (700 km) e maratone (oltre 700 km). «In condizioni favorevoli, un colombo può fare 850 chilometri in un giorno, senza fermarsi». spiega Debernardi. Su dei camion i colombi vengono portati al punto di partenza e da lì liberati. Il primo ad arrivare, ovviamente tenendo conto della distanza percorsa, è il vincitore.
Ci sono anche le Olimpiadi, dove a livello mondiale non conta solo la forza e la velocità ma anche la bellezza. I giudici, di cui Debernardi fa parte, sono esperti nel valutare cinque caratteristiche diverse: l’espressione generale, poi l’ossatura e il dorso, il groppone, l’equilibrio e la muscolatura, l’ala e la qualità della piuma. «L’Italia è una nazione piccola nel panorama colombofilo, ma ogni tanto sul podio ci saliamo», dice il presidente. Di certo non possiamo competere con giganti come Belgio o Polonia, dove la tradizione è radicatissima. Lì, come spiega Debernardi, alcuni riescono a fare di questo sport più che una passione perché girano molti più soldi. «In Belgio un novellino lo paghi anche 4.000 euro, in Cina si arriva a milioni». In Italia è diverso: «Da noi è puro hobby, non un lavoro». Infatti, per quanto affascinante, la colombofilia italiana fatica a rinnovarsi. «È ormai anacronistica» ammette Debernardi. «Ogni tanto vado a raccontare nelle scuole cosa facciamo, ma i ragazzi mi guardano come se fossi pazzo». Il colombofilo giovane ha 50-60 anni, «Un ventenne in un gruppo di settantenni che ci sta a fare?» si chiede. E poi servono spazio, tempo e soldi: «Con 100-200 colombi sei inchiodato. Non puoi andare in vacanza. Oltretutto, contando ogni spesa, 10.000 euro l’anno li spendi come niente fosse». Uno sport che nel tempo è diventato sempre più costoso tra mangime, un luogo in cui tenere gli animali, il trasporto, le cure.

Aldo Gurnari, presidente del gruppo di Monza
Il colombo e il suo allevatore – Il colombo viaggiatore è un animale sorprendente. «Torna sempre dove è nato», spiega Debernardi, «Poco dopo essere venuto al mondo, mappa la zona tramite i campi magnetici terrestri». Partendo da questo dono, sta poi all’allevatore addestrarlo in maniera graduale: «Lo porti a 10, 20, 50 chilometri dal nido, fino a quando non è pronto alle gare vere». A volte però non tutti ce la fanno: «Su 50 novelli, dopo cinque anni te ne restano 5 o 6». Alfredo Gurnari è un altro custode di quest’arte antica, colombofilo e presidente del gruppo di Monza. «Io sono in pensione e lo faccio solo per passione. Ad ogni gara posso permettermi di mandare solo 15 colombi, anche se c’è chi ne manda anche 300». La sua colombaia personale è a Bussero, dove ogni uccello ha il proprio nome e un posto che nessuno può rubargli. «Caterina, per esempio, è tra le mie preferite», dice con un sorriso. Per lui, la colombofilia è una questione di cuore e adrenalina: «Stai ore ad aspettare che arrivi. Lo vedi lassù, un puntino nel cielo, e ti chiedi: è lui o non è lui? È pazzesco». Ogni colombo è un atleta da curare come un figlio. «La mattina alle otto e mezza mangiano: 25 grammi a testa, non di più. Poi vitamine, magnesio, potassio, vaccinazioni ogni tre mesi», dice Gurnari. Per riconoscerli, a 8 giorni di vita gli si mette sulla zampina un anello con una matricola, una sorta di certificato di nascita, e un microchip identificativo. Questo è fondamentale per registrare l’orario di arrivo durante la gara. All’ingresso del nido una pedana elettronica non permette nessun imbroglio, trasmettendo tutti i dati in tempo reale alla Federazione. E poi ci sono i rischi del mestiere, come ad esempio i colombi che non tornano. Come racconta, spesso i falchi li attaccano mentre sono in volo, ma ci sono anche i fili dell’alta tensione, o semplici giorni in cui l’animale «perde la testa» e non si orienta più finendo in un’altra colombaia. «Io ho avuto piccioni di velocità che da Milano a Bologna ci mettevano un’ora e tre quarti, a 90-95 chilometri orari», dice orgoglioso. Ma tra i ricordi più belli, oltre la prima vittoria, c’è quello di un colombo che non ha mollato. «Era stato attaccato da un falco, aveva una brutta ferita sulla pancia. Si era fatto 500 chilometri per tornare. Gli ho cucito io la ferita, è ancora oggi nella mia colombaia».