Pino Wilson dormiva pochissimo, quattro-cinque ore a notte. L’ex storico capitano della Lazio del primo scudetto passava le sue notti a leggere, informarsi, riflettere. Lo chiamavano “Baronetto”. Per il modo in cui si distingueva dentro lo spogliatoio, per il sangue inglese, o forse per il suo look alla Beatles. Chissà quanto ha dormito la notte tra l’11 e il 12 maggio 1974, il Baronetto. Poco, pochissimo. Stava discutendo con Tommaso Maestrelli, del referendum sull’aborto e delle Brigate Rosse, ma otto ore dopo era lì, sul prato dell’Olimpico, con la fascia da capitano al braccio, a vincere lo scudetto. In un’altra domenica quarant’anni dopo, il 6 marzo 2022, Wilson è morto per un arresto cardiaco. Aveva 76 anni, verrà sepolto nella cappella della famiglia Maestrelli. Riposerà per sempre al fianco del suo allenatore e di Giorgio Chinaglia, tra le stelle più luminose della storia biancoceleste.

Banda Maestrelli – Era un completo sconosciuto, Giuseppe Wilson, detto Pino, quando nel 1969 arrivò alla Lazio. Fu acquistato dall’Internapoli insieme a Chinaglia tra lo scetticismo dei tifosi, ma in realtà su di lui c’era l’attenzione delle squadre di mezza Serie A. Figlio di un ufficiale inglese di stanza a Napoli e una donna partenopea, il calcio da hobby del doposcuola divenne presto un lavoro. Difensore veloce e ruvido, nacque terzino e si scoprì libero, in una Lazio senza pretese, che l’anno dopo il suo arrivo retrocesse in B. Ma quello fu l’inizio dell’era della banda Maestrelli, con la Coppa delle Alpi vinta nel 1971. Leader atipico, uomo gentile ma che amava gli scherzi, abile nel tenere unito uno spogliatoio spaccato in cui ognuno recitava una parte, ci si cambiava in due stanze separate, e la domenica si vinceva insieme. Tor di Quinto era lo specchio dell’Italia del tempo, instabile e spaccata, e quella Lazio ne era interprete perfetta. Al campo c’erano le pistole nei borsoni, e qualcuno, come Sergio Petrelli, ci dormiva persino. Wilson aveva la sua calibro 38, anche il Baronetto aveva ceduto al fascino delle armi. E ad altri peccati. Fu investito, insieme ad altri tre compagni, dallo scandalo del Totonero, e portò sempre con sé il peso dei propri sbagli, tanto da autoinfliggersi il ritiro dopo la condanna. Poco dopo lo Scudetto del ’74 si laureò in giurisprudenza, alimentando quella contraddizione che è sempre stata parte integrante della sua figura. Capitano grintoso che parlava forbito, figlio della Napoli bene trascinato giù da amicizie sbagliate.

Nella storia – Sono 394 le presenze di Pino Wilson con la maglia della Lazio, terzo nella classifica all time biancoceleste, tre invece in Nazionale con una convocazione per lo sfortunato Mondiale di Germania ’74. Nel mezzo una stagione nei Cosmos di New York, esperienza oltreoceano servitagli solamente per capire che casa sua era da un’altra parte. Alla Lazio ha vissuto il sogno e il dramma, ha assaggiato il trionfo e il peccato. Ha visto Luciano Re Cecconi volare in cielo per uno scherzo trasformatosi in tragedia, tre anni dopo aver alzato insieme il primo scudetto che rimarrà il più iconico della storia biancoceleste. La Lazio Wilson non l’ha lasciata nemmeno dopo il ritiro, anche se ha sempre sofferto quella mancata chiamata per un ruolo ufficiale in società. Era ospite fisso nelle radio romane a tinte biancocelesti, aveva fondato un programma tv insieme a un altro grande ex, Giancarlo Oddi. Era sempre lì, in ansia per i derby e incollato alla televisione. Qualcuno lo incontrava anche sulle tribune dell’Olimpico, mentre ricordava gli anni in cui la Curva Nord cantava il suo nome. Era portatore perfetto della lazialità, custode della storia biancoceleste. Passava le sue giornate a parlare di quella Banda che fece la storia, ora forse potrà rivedere alcuni vecchi amici.