I Los Angeles Lakers sono soliti ritirare le maglie dei giocatori dopo il loro ingresso nella Hall of Fame. Ma per lui era inutile aspettare. 614 giorni dall’ultima partita, quella del ritiro, Kobe Bryant torna per la prima volta allo Staples Center, il palazzetto di Los Angeles. Aveva promesso che si sarebbe staccato dal basket, e così è stato. Il ritorno non poteva che essere per una notte speciale, quella del ritiro delle casacche numero 8 e 24, le due indossate da Kobe nella sua carriera. È il primo giocatore nella storia dell’Nba per cui sono ritirate due maglie. Neanche per Michael Jordan, che ai Chicago Bulls aveva indossato prima la casacca 23 e poi la 45, si era arrivati a tanto.
Kobeland – La data, il 18 dicembre 2017, era stata decisa da tempo. L’area intorno allo Staples Center rinominata per l’occasione «Kobeland», è piena dalle prime ore del pomeriggio. È il giorno della sfida tra Lakers e Golden State, ma gli occhi sono tutti per il «Black Mamba». Bryant fa il suo ingresso nell’arena circa due ore prima della palla a due in elegante completo scuro, spingendo il passeggino con l’ultima figlia Bianka di un anno. Accanto a lui la moglie Vanessa e le due figlie. Ad accoglierlo Magic Johnson. La conferenza prima della cerimonia è un’emozione continua. «Le maglie che vedevo appese ogni volta entrando in campo hanno avuto grande impatto su di me, erano ispirazione pura, spero che anche le mie avranno lo stesso effetto per i grandi campioni che giocheranno qui in futuro», dice Kobe. La sua vita è cambiata ma è sereno. «Tanta gente era preoccupata da cosa sarebbe stata la mia vita dopo il basket, mi davano consigli, mi dicevano cosa avrei dovuto fare. Sto bene, mi alzo alle 5 ogni mattina, mi alleno, faccio colazione con mia moglie, porto i bambini a scuola, li vado a prendere, vado in ufficio (lavora a progetti con i suoi sponsor, ndr). Mi godo la famiglia e vedo crescere i miei figli».
La Cerimonia – All’intervallo il momento che tutti attendevano, con Kobe che entra in campo accolto da un boato assordante. Magic lo introduce definendolo «il più grande giocatore che abbia mai vestito la maglia Lakers», che è un po’ come se Cruijff dicesse a Messi che è il più grande giocatore ad aver vestito la maglia del Barcellona. Magic poi lascia la parola a Jeanie Buss, la proprietaria della squadra che, combattendo le lacrime, aggiunge: «Presi singolarmente sia il giocatore che ha vestito la numero otto che quello che ha vestito la numero ventiquattro entrerebbero nella Hall of Fame, hai dato tutto per noi e sei stato sempre fedele a questi colori». A bordo campo una lista infinita di campioni e amici fra cui Fisher, Shaq, Iverson e l’inseparabile Gary Vitti e Paul Pierce. Fra le due maglie che rappresentano due fasi della sua carriera Kobe è titubante nel scegliere la preferita, poi incalzato dice «la numero 8 ha rappresentato la mia crescita, la 24 è stata una sfida ogni sera, gioia e sofferenza. Scelgo la seconda perché è stato più difficile raggiungere gli obbiettivi».
Una carriera da record – Pensare che in giallo-viola ci finì quasi per caso. Scelto (non ancora diciottenne) come numero 13 al draft del 1996 dagli Charlotte Hornets, Bryant venne scambiato subito dopo con il centro dei Lakers Vlade Divac. Venti anni, 5 anelli e una serie infinita di record dopo, si direbbe una scelta azzeccata. Kobe ha indossato per dieci anni la numero 8 e per i secondi dieci la 24. La scelta di cambiare numero, inusuale per i giocatori Nba, ha due motivazioni, una più poetica: dopo l’accusa di stupro (poi archiviata) e le critiche per il suo gioco troppo individualista, Bryant decise di cambiare. Il primo passo fu quello modificare il numero di casacca, scegliendo il numero 24, quello di suo padre e anche il suo da ragazzo. Il numero 24, come il numero delle ore durante il giorno, si riferirebbe inoltre alla totale dedizione di Kobe per il basket, alla voglia di allenarsi e continuare a migliorare. Un’altra possibile ragione è ben più terrena: una scelta commerciale per rilanciare la sua immagine, offuscata dopo il processo. Crediamo alla prima, anche perché la conclusione del Mamba day, così come la sua carriera, è da favola: «Ero un bambino che aveva un sogno e lo ha realizzato».