E’ il 27 febbraio 2016, un sabato sera. Alla Chesapeake Energy Arena di Oklahoma City i Thunder padroni di casa e i Golden State Warriors stanno regalando ai circa 18mila spettatori una delle più belle partite della regular season 2015/16. Mancano poco più di 10 secondi alla fine dell’overtime e il punteggio è 118-118. Oklahoma City ha la palla della vittoria; la gestisce Russell Westbrook ma, come capitato più volte in carriera, si prende un tiro di discutibile qualità, circondato da tre difensori avversari. La palla sbatte sul tabellone e poi sul ferro. La lotta a rimbalzo viene vinta da chi difende. Draymond Green riesce a farla arrivare al compagno Andre Iguodala che, in un istante, la passa a Stephen Curry. Scelta ovvia, visto che ha già segnato 43 punti, con 11 triple.

Ci sono ancora 5 secondi sul cronometro, ci si aspetta che l’allenatore Steve Kerr chiami il timeout per disegnare l’ultima giocata. Invece, non si ferma nessuno. Nessuno eccetto Curry, un paio di metri oltre la metà campo. Un palleggio, piedi a posto, tiro. Il suo marcatore Andre Roberson cerca in extremis di ostruirgli la visuale, ma sa benissimo che è un tentativo vano. Mentre la palla percorre la parabola verso il canestro, molti sugli spalti hanno già le mani sui capelli. Un istante dopo arriva il celebre «Bang!» di Mike Breen, telecronista di ESPN. Gli Warriors vincono così, 121-118, con una tripla da 11 metri della loro stella, che alla fine di quella stagione diventerà il primo e fin qui unico MVP (Most Valuable Player, ossia miglior giocatore) votato all’unanimità nella storia della Nba.

La scelta di Kerr di non chiamare il timeout è il paradigma della carriera di Curry, perché se quello che per tutti o quasi è un tiro della disperazione, per lui è un tiro normale, perfino buono da prendere. Già allora era chiaro che il record di 2.973 triple in carriera, detenuto da Ray Allen, aveva le ore contate.

Il tiro di un bambino – Curry è nato a Akron, Ohio, nello stesso reparto dell’altra icona della Nba contemporanea, LeBron James. Le similitudini tra i due finiscono qui. Uno, James, dopo un’infanzia difficile è diventato un fenomeno nazionale già ai tempi della high school St. Vincent – St. Mary, quando si era guadagnato l’appellativo di “The Chosen One”, in una celeberrima copertina di Sports Illustrated, appena prima di entrare in Nba nel 2003 da prima scelta assoluta, senza passare dal college. Curry invece veniva da una famiglia agiata, dato che è il figlio di Dell, in Nba per 16 stagioni, dove era uno specialista nel tiro da tre (40.2 % di media in carriera). In rete ci sono molti video in cui Steph, ancora bambino, calca i parquet vuoti dei vari palazzetti, cercando di imitare il padre nel tiro da fuori. E come ogni bambino, la palla partiva dalla pancia, per via della muscolatura delle braccia ancora non sviluppata.

Il problema, per lui, è che lo sviluppo tarda ad arrivare, tanto che si porta questa meccanica fino a 16 anni; per i coetanei più formati sul piano atletico, stopparlo è un gioco da ragazzi. Ma Curry non demorde e con Dell lavora per mesi sul suo tiro. Lì nasce il suo gesto distintivo, un tiro costruito dal palleggio, con un rilascio quasi istantaneo per superare il difensore (in media ci mette 0,7 secondi a far partire la sfera dalle mani). Entrato in sordina al college, tanto che nel 2006 veniva considerato il 256° prospetto nazionale, in tre stagioni con i Wildcats di Davidson diventa uno dei giocatori più seguiti in America.

Tuttavia, quando si dichiara eleggibile per il draft 2009, nell’Nba ci sono diversi dubbi sulla sua consistenza sul piano fisico. A scommettere su di lui, con la settima scelta, sono i Golden State Warriors, squadra da decenni nelle sabbie mobili della mediocrità. Nella stagione d’esordio, Curry si dimostra all’altezza della lega, con 17.5 punti e 5.9 assist di media. I dubbi, però, riemergono nelle due annate successive, in cui gioca poco e viene operato due volte alle caviglie. Gli Warriors per un momento valutano la cessione ai MIlwaukee Bucks, prima di avere un cruciale ripensamento. All’alba della stagione 2012/13, Curry torna in piena forma ed è pronto a rivelarsi all’Nba.

La ricerca dell’efficienza – Da allora, gli Warriors hanno vinto tre titoli e ottenuto il record di vittorie in stagione regolare (73) nel 2016. Sotto la guida di Steve Kerr, la squadra della Baia ha rappresentato un nuovo standard per l’Nba, sul piano sia estetico che tattico. Oggi il tiro da tre viene cercato in modo quasi smodato, mentre fino ai primi anni 2000 era una soluzione più rara.

A quei tempi ne venivano presi in media 12 a partita, oggi 35. Squadre come gli Houston Rockets del 2017/18 sono arrivate a totalizzare più triple che tiri da due tentati nell’arco dell’intera stagione. Lo stesso Kerr, da giocatore, era considerato uno specialista del tiro da tre, ma ne prendeva 1.8 a partita. Quelli come lui, oggi, tirano anche cinque volte in media da fuori area. Nella Nba di Kerr, compagno di Michael Jordan ai Chicago Bulls, si puntava più sul tiro dalla media distanza e sul confronto fisico sotto canestro.

Con lo sviluppo delle statistiche avanzate nello sport americano (fenomeno partito dal baseball), si è capito che lo spazio oltre la linea dei tre punti poteva essere più produttivo, non solo perché vale un punto in più: il giornalista di ESPN Kirk Goldsberry, con un imponente lavoro di mappatura, ha dimostrato che i tiri dentro l’area, dal cosidetto mid-range, producono in media 0.8 punti, contro gli 1.1 di quelli oltre l’arco. Per questo, oggi viene chiesta quasi a tutti i giocatori una buona efficienza nelle triple; se prima c’erano Shaquille O’Neal e Karl Malone che pensavano solo a battagliare sotto il ferro, oggi un 2.20 metri come Kristaps Porzingis prende comodamente tiri da nove metri. E gli specialisti, come lo furono Kerr e Dell Curry, possono ambire a contratti milionari. Lo scorso anno Luke Kennard ha firmato un contratto da 64 milioni di dollari in quattro anni con i Los Angeles Clippers: non sarà un fenomeno generazionale, ma tira con il 45% da tre. Discorso simile per il fratello di Curry, Seth, da anni giocatore di prima fascia nella lega; senza dimenticare Klay Thompson, colonna portante dei successi di Golden State.

Il bug del sistema – «Be like Mike», era lo slogan di uno spot dei primi anni ’90 della Gatorade, emblema del peso mediatico universale di Michael Jordan. L’impatto di “His Airness” sulla Nba non ha pari in termini di visibilità del brand: con lui la massima lega del basket ha assunto respiro respiro globale. Oggi, sul piano del gioco, per molti va forte il «Be like Steph». Curry, in ogni caso, rimane un bug del sistema e imitarlo può essere controproducente. Non tutti possono permettersi di tirare senza pensieri a 11 metri dal canestro come contro Oklahoma City nel 2016. Lui è tra i pochi ad aver reso efficienti anche le triple non assistite, di norma tiri forzati e difficili da mettere a segno. Curry però è fenomenale nel costruirsi da solo le migliori condizioni per la conclusione. Questo spiega come mai, su 2.977 tiri da tre a segno, ben 1.134 siano arrivate senza assist dei compagni. Uno come lui è un incubo per ogni difesa: anche poco oltre la metà campo e con due avversari alle calcagna rappresenta comunque una minaccia.

Allo stesso tempo, ha fatto un’arte del movimento senza palla, facendo slalom tra i corpi degli altri per trovare lo spazio che gli serve. Così è arrivata la tripla numero 2.974 della carriera, quella con cui ha superato Ray Allen nella classifica all-time della Nba.

Sotto le luci del Madison Square Garden, girovaga per l’area disorientando lo sfortunato marcatore, Alec Burks. Appena vede un buco sulla punta della linea da tre ci si fionda, riceve e scocca la tripla con un rilascio di 0.4 secondi. Poi, nient’altro che la rete.