«Non capisco perché l’altra debba essere io. E voi, avete mai provato ad essere l’altro?». Finisce così il documentario Maka, proiettato il 6 febbraio nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Milano. La frase è di Geneviéve Makaping, scrittrice, giornalista e antropologa, ed è tratta dal suo libro Traiettorie di sguardi. Prima donna nera in Italia ad aver ricevuto un dottorato e ad essere stata direttrice di un giornale e di un’emittente televisiva, rispettivamente La provincia cosentina e Metrosat. Si definisce una donna dalle «identità multiple»: africana, camerunense, calabrese e fieramente “terrona”. Maka, scritto da Simone Brioni e diretto da Elia Moutamid, racconta la sua storia. Narra del viaggio che dal Camerun l’ha portata in Italia nel 1982 e della vita straordinaria che da quel viaggio ha preso le mosse . Per farlo, Brioni e Moutamid hanno scelto come tipo di narrazione quello del metacinema: «Il film sostanzialmente è il backstage del film stesso e mostra i dubbi che può avere un autore, un regista, nel mettere in scena una tematica del genere senza cadere nella retorica. Una tentazione molto facile quando devi sensibilizzare la gente all’uguaglianza. Volevamo scongiurarla, pensavamo fosse più interessante condividere i nostri dubbi, le nostre perplessità e le pseudo-convinzioni con lo spettatore, in modo da avere una lettura il più universale possibile», spiega Moutamid.
Un’altra sfida nella realizzazione del documentario, racconta il regista, è stato l’uso delle parole. Ed è proprio il linguaggio ad essere uno dei temi centrali del film. «Il linguaggio è molto importante, ancora di più per quelli che sono relegati al margine. È proprio dal margine che noi, usando un’arma così sacra come la parola, decidiamo di raccontare noi stessi, invece di lasciare che siano gli altri a farlo, come hanno fatto per secoli», commenta Makaping. Le parole vanno decostruite e svuotate degli stereotipi che le caratterizzano: «Perché “terrona” dovrebbe essere una brutta parola se l’etimologia del termine deriva da “terra”?». Geneviéve fa della riappropriazione del linguaggio una delle sue battaglie politiche. Ed è proprio per questo motivo che uno dei capitoli del suo libro si intitola Chiamatemi negra.
Maka ci invita a non dividere il mondo in “noi” e “l’altro” e a esplorare la complessità di ognuno di noi e delle nostre identità. Un’opera «collettiva», come la definisce il regista, «dove ognuno ha messo il suo, compresa Maka». Un film che lascia lo spazio a Geneviéve Makaping di raccontarsi e non di essere raccontata. L’obiettivo che Brioni e Moutamid si sono dati fin da subito è stato creare un prodotto che arrivasse a un pubblico più ampio possibile: «io non faccio i film per la mia cerchia o per chi la pensa come me, anzi, vorrei che lo vedessero persone con una visione diametralmente lontana dalla mia», spiega Moutamid. Da qui il frequente ricorso all’ironia, che, attraverso una provocazione mirata, punta a stimolare la riflessione nello spettatore, anche quando non condivide il punto di vista proposto.