In un mondo sempre più attratto da produzioni televisive di stampo noir come Qui non è Hollywood, la serie dedicata al delitto di Avetrana, bisognerebbe riportare in scena un tipo di amore sano. E’ questo il parere di Maurizio Nichetti, regista milanese che negli anni ’80 del Novecento ha diretto film comici come Ho fatto Splash e Ladri di Saponette: durante un incontro all’Università Statale di Milano dedicato all’educazione sentimentale, Nichetti ha presentato in aula magna il suo film d’esordio Ratataplan (1979) dopo aver consegnato il premio Olmi alla miglior tesi cinematografica, assieme alla neo direttrice della scuola di giornalismo Walter Tobagi, Nicoletta Vallorani.
Ratataplan – ha spiegato il regista – non è un film d’amore ma è anche un film d’amore. Un amore spensierato e leggero, come quelli dei libri che fanno ancora sperare e sognare. Ed è proprio di questo tipo di amore, sano e rassicurante, che bisognerebbe (ri)portare in scena in un mondo sempre più abituato all’orrore. Una serie come quella dedicata all’omicidio Scazzi, – dice – non la concepisco perché è una tragedia terribile, una tragedia umana e familiare.”
Quanto pensa sia cambiato il pubblico che oggi guarda, magari per la prima volta, Ratataplan?
È la terza volta in un mese che lo vedo con un pubblico che non l’aveva mai visto, ed è la prima cosa che chiedo prima di iniziare a vederlo. Lo abbiamo presentato al Festival di Busto Arstizio in una serata per cinefili e metà della sala lo aveva già visto 45 anni fa. Rivederlo nel 2024, soprattutto con persone che non l’hanno mai visto, mi interessa molto perché mi piace capire, in termini di linguaggi e di contenuti, ma anche come gag, se arriva.
Nell’ottica delle relazioni odierne, ritiene sia ancora attuale il suo film?
Mi rendo conto che ovviamente non può arrivare ad una generazione giovane del 2024, con tutti i contenuti e i rimandi di 45 anni fa, però la disoccupazione intellettuale e la ricerca di un lavoro, qualunque esso sia, c’è adesso anche più di ieri. Questi connotati sociali e di costume all’epoca erano particolarmente attuali, eppure lo sono anche adesso perché anche un ragazzo che lo vede, oggi per la prima volta, riesce comunque a riconoscersi e a immedesimarsi. Potrebbe persino trovare un senso di consolazione, nella condivisione. Oggi credo che la novità stia nel fatto che la gente rimanga stupita di come fosse possibile all’epoca fare un film così. Ma non lo era, nemmeno all’epoca. È stata una pazzia.
Se dovesse rifarlo, lo rifarebbe esattamente così?
Lo rifarei identico. Perché in quel momento erano le uniche cose che potevo fare. Non avevo soldi e non potevo avere di certo un cast famoso. Questo è un film vissuto 45 anni, fatto con niente, perché dovrei rifarlo diversamente? Con i soldi non sarebbe venuto meglio. Se ci sono delle idee, delle belle idee, si possono trasformare in realtà anche con pochi soldi. Non costano nulla, le idee.
In virtù delle dinamiche affettive sempre più complesse e disfunzionali, quanto è forte oggi il peso della responsabilità culturale, soprattutto cinematografica, nei confronti dell’educazione sentimentale? È cambiata la percezione di questo peso?
Sì, ed è cambiata in peggio. Perché siamo schiacciati dal peso di una cronaca che porta sulla cattiva strada. Mi chiedo: la gente può essere attratta da una tragedia come quella di Avetrana? La conseguenza di questo tipo di attrazione è che non si ha più un immaginario tenero dell’amore. Se non lo sai più immaginare, l’amore, poi non riesci nemmeno a viverlo. Per questo credo che il cinema e i libri dovrebbero mostrare e raccontare l’aspetto migliore dell’amore, quello più sano. Ormai la malattia è talmente radicata nel profondo che un film su una famiglia felice probabilmente non lo guarderebbe nessuno. Siamo arrivati allo sdoganamento dell’orrore e alla consapevolezza che se non c’è l’orrore in un film, non interessa a nessuno.
Sulla scia delle responsabilità, che consigli darebbe a un giovane regista che vorrebbe entrare nel mondo del cinema?
Intanto deve sapere che il mondo del cinema non esiste più, perché è un linguaggio del Novecento. Oggi ci troviamo in quello del digitale e dei social che vanno a un’altra velocità di comunicazione. Se io una volta guardavo Miracolo a Milano uscivo dalla sala che non avevo visto solo un film ma una favola, un sogno. Tutto quello che oggi mette in scena il mondo della malavita, pensiamo a Gomorra, sembra volerci dimostrare che il protagonista alla fine dei conti sia un “poverino”, perché è peggio il mondo che gli sta intorno. Ma perché sdoganare persone che sono oggettivamente fuori dalla società e renderle protagoniste di serie televisive? Io piuttosto che fare un film così, non lo faccio. Infatti non ne faccio molti. Anche se mi rendo conto che questo non è il modo migliore per fare i soldi. Quindi, a un ragazzo che vuole fare cinema, io direi di seguire le proprie idee e di trovare qualunque mezzo per poterle raccontare.