Mar 22, 2018

di Valerio Berra e Marta Facchini

Una nube di fumo nero. Un cumulo di spazzatura che prende fuoco in un capannone abbandonato. Fiamme che divampano in uno stabile di duemila metri quadri, improvvisamente. Odore pungente, si sente a chilometri di distanza e non fa quasi respirare. È il 3 gennaio 2018 e quello di Corteolona, in provincia di Pavia, è il primo incendio del nuovo anno.  Nel 2017 in Lombardia di roghi dolosi se ne erano contati già molti. Prende fuoco la monnezza. Plastica, copertoni, gomme. Spazzatura accatastata, senza ordine, spesso in luoghi che con i rifiuti non hanno nulla a che fare.

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Corteolona: il giorno zero


Quel giorno, Angelo Della Valle lo ricorda bene: “Siamo intervenuti immediatamente. Abbiamo lavorato insieme all’Arpa, ai vigili del fuoco, all’unità di crisi locale”, ricorda il sindaco di Corteolona e Genzone. L’incendio è stato domato nel corso della notte. I dati Arpa, l’Agenzia regionale dell’Ambiente, hanno rivelato che, nei momenti più acuti, i livelli di diossina erano 40 volte sopra la soglia minima. Una nuvola tossica, perché quel capannone era pieno di rifiuti pericolosi. E plastiche.

“L’incendio è stato un caso particolare rispetto ai precedenti”, dice Della Valle, “perché ha riguardato non un sito di stoccaggio ma un fabbricato abbandonato”. Un problema non da poco, visto che nella provincia di Pavia se ne perde il conto. “Se questo fosse l’andamento, c’è da preoccuparsi. Per questo abbiamo aderito all’iniziativa voluta dalla prefettura di mappare tutti i siti nella provincia”. In totale, sono stati censiti 169 capannoni dismessi, tutti potenziali siti di smaltimento abusivo. “Quando succedono eventi di questo tipo, ci si sveglia”, conclude.

“Quando accadono eventi di questo tipo, ci si sveglia”

Angelo Della Valle

Sindaco di Corteolona

Il giorno dell’incendio lo ricorda anche Gabriele Grossi, presidente del comitato Vivo la Bassa, un’associazione che cerca di tutelare e valorizzare il territorio. “Sono andato a vedere ed era chiaro che a prendere fuoco erano stati i rifiuti accatastati”, racconta. “Un movimento sospetto di camion c’era da tempo e gli abitanti della zona lo avevano segnalato. Di certo non era un capannone abbandonato del tutto, come è stato più volte detto”. Che ci sia stato un sospetto traffico di camion lo hanno confermato anche alcune fotografie mostrate in anteprima dal Tg3. Le immagini sarebbero state scattate nel mese di settembre 2017: mostrano i camion circolare in pieno giorno e scaricare rifiuti nel deposito. Si possono leggere anche le targhe.

“Bruciare rifiuti è diventato un business. Ci si guadagna, e molto”

Gabriele Grossi

Comitato Vivo La Bassa

 “Se c’erano state segnalazioni, ci chiediamo perché non si è intervenuti in modo tempestivo. Nel capannone c’era una ruspa, che serviva evidentemente per sistemare la spazzatura. Poi è scomparsa”, spiega Grossi. “Inoltre il cancello dello stabile è nuovo, segno che qualcuno ci andava”, conclude. Il terreno è di un privato che afferma di non saperne niente. E sul traffico di rifiuti, Grossi ha una sua ipotesi: “Bruciare è diventato un business. Ci si guadagna, e molto”.

Il traffico dei rifiuti


Un fuoco sacro, quello che brucia impianti di stoccaggio e siti di smaltimento. Un fuoco benedetto, o quasi, perché nasconde le prove. Il paragone lo fa Roberto Pennisi, consigliere della Direzione Nazionale Antimafia. E Pennisi il traffico dei rifiuti lo conosce bene. Si è occupato di delitti ambientali in oltre trent’anni di lavoro in magistratura, prima in Basilicata, poi in Calabria e alla fine a Brescia. Quei delitti li chiama “crimini da faccia pulita” perchè a commetterli sono (spesso) imprenditori: hanno un colletto bianco e fanno impresa. Sugli incendi al Nord, Pennisi accende l’attenzione nel 2015, quando lavora a Brescia per l’appena fondata Dia, la Direzione Investigativa Antimafia. Già nel 2015, quando si aprono le prime indagini, il bresciano è un polo strategico.

Traffici e smaltimento illegale. Incendi, e non per autocombustione. In tre anni la situazione non cambia, anzi si intensifica. In Italia si sono verificati 261 casi di incendi negli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti. Solo nelle regioni del Nord sono stati 124, il 47,5% sul totale. Un metodo, quello delle fiamme, che annerisce la Lombardia degli ultimi anni. Prendono fuoco capannoni, macchinari, mucchi di spazzatura. La procedura è stata osservata e monitorata dai carabinieri per la tutela dell’ambiente, in collaborazione con le procure territoriali.

Negli ultimi 3 anni ci sono stati 261 casi di incendi negli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti

“Stiamo controllando il fenomeno degli incendi dal 2015, anche attraverso le esperienze raccolte in altre regioni, soprattutto il Veneto”, spiega Massimiliano Corsano, il comandante del Noe di Milano. Il monitoraggio parte dopo l’incendio alla Trailer di Rezzato, in provincia di Brescia, dove erano stoccate mille tonnellate di rifiuti destinate al termovalorizzatore A2a. L’indagine, condotta insieme alla Procura distrettuale antimafia di Brescia, nel luglio 2017 ha portato due persone agli arresti domiciliari con l’accusa di traffico illecito dei rifiuti. Tra questi c’è Paolo Bonacina, amministratore di due srl di Bergamo e Brescia.

Nel caso della Trailer, si è dimostrato come fossero state trasportate in Lombardia e in Piemonte 100mila tonnellate di ecoballe dalla Campania. I rifiuti provenivano da tre aziende: la Sapna, società della Città metropolitana di Napoli, dal Consorzio laziale rifiuti di Roma e da Acam, azienda della provincia di La Spezia. Passavano negli impianti di tritovagliatura solo formalmente e solo il tempo necessario per modificare i codici identificativi. Ci si limitava al classico “giro bolla”, ovvero si cambiava l’etichetta. I rifiuti speciali non venivano trattati. Ad affermarlo è l’allora procuratore aggiunto di Brescia Sandro Raimondi: “il rifiuto meno lo tocchi e più guadagni”. Con la complicità di alcune ditte di trasporto, la spazzatura finiva negli inceneritori regionali, tra cui l’A2a, fino a un sito esaurito nei pressi di Alessandria.

“L’inchiesta ha permesso di mostrare un’inversione nel traffico dei rifiuti dal Sud al Nord”, afferma Corsano. In Lombardia si trovano condizioni favorevoli perché la regione ha una notevole disponibilità di impianti per il trattamento. Ce ne sono più di 2700. “Il problema principale riguarda lo smaltimento di quelli pericolosi e di più difficile trattazione. Dare fuoco a rifiuti non trattati permette di aumentare il profitto. Nel complesso, è un giro di affari che in tutta Italia rende 10 miliardi di euro l’anno”.

Il processo è semplice: l’imprenditore  vince gare di appalto, o di subappalto, e ottiene la gestione di ingenti quantità di rifiuti, spesso superiori rispetto alle sue capacità di smaltimento. Non ne tratta la gestione e si limita a cambiare il loro codice in uscita. Incassa i soldi ma, quando non riesce più ad accumulare spazzatura, la brucia. Poi, le fiamme cancellano ogni cosa: il corpo del reato, i codici identificativi, le tracce del malaffare.

L’inversione dei flussi rispetto al passato la conferma anche Chiara Braga, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti: “Il fenomeno ha dimensioni preoccupanti. I rifiuti viaggiano verso il Nord anche perché le regioni meridionali hanno carenza di impianti per il recupero della materia”. La Commissione ha monitorato anche gli incendi: “Alcuni sono sono imputabili a una cattiva gestione degli impianti, al mal funzionamento dei sistemi di sicurezza e anti-incendio. Ma non si esclude una spiegazione criminale, su cui le procure indagano”, afferma Braga. I dati parlano di 260 incendi in tre anni, il 20% degli incendi in Lombardia è stato di origine dolosa. Una nuova Terra dei Fuochi, quindi? Non esattamente. “Sono due fenomeni da distinguere. Tranne per Corteolona, abbiamo a che fare con incendi che avvengono in impianti autorizzati”, prosegue. Insomma, non si tratta in ogni caso della mano delle organizzazione criminali ma una zona grigia rimane, sempre. Di illeciti e di non rispetto delle norme.

È ancora difficile parlare di una strategia unitaria, ma le indagini dimostrano che c’è dietro una mano dolosa. “Gli incendi sono la conferma che la Lombardia è strategica per i grandi traffici”, spiega Sergio Cannavò, avvocato Legambiente. Secondo quanto raccolto da Legambiente, se si analizza la sede storica delle inchieste per delitti ambientali, quelle lombarde sono circa il 7% del totale. E se si fa riferimento a indagini su imprese, diventano il 30% dell’insieme su scala nazionale. “Il fuoco può essere usato per fare sparire le prove, qualcosa che non deve essere scoperto”, commenta.

È stata la Legge sugli ecoreati approvata nel 2015 a permettere di inserire nel codice penale nuovi delitti: inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo e omessa bonifica. “Un importante passo in avanti, che assegna nuovi strumenti al legislatore”, continua. Nell’ultimo Report Ecomafie, si legge come nel 2016 siano stati sequestrati 133 beni e sanzionati 574 ecoreati. Numeri, ma anche storie perché dietro le cifre si nascondono comportamenti illeciti: “ora si possono punire in modo più incisivo i comportamenti criminali. Prima bisognava arrampicarsi sugli specchi”.

Dove atterra la Diossina

“Chiudere le finestre: allarme nube tossica”. La notte dell’incendio di Corteolona, il sindaco Angelo Della Valle firmava un’ordinanza per invitare a non uscire di casa, a sospendere la raccolta e il consumo dei prodotti coltivati nei campi. Si vietava anche il pascolo degli animali. “Sono alcune delle procedure che possono essere applicate nelle prime fasi dell’emergenza”, spiega il professor Giuseppe Sgorbati, direttore del dipartimento di Milano per Arpa. “Il nostro compito è conoscere lo stato ambientale e attuare provvedimenti per la protezione dei cittadini. Questo a ridosso di un incendio ha un significato particolare, vista la contaminazione dell’atmosfera e il possibile rischio per la salute”, prosegue.

Dopo il rogo del capannone, Arpa è intervenuta posizionando un campionatore per rilevare la presenza di microinquinanti, come Ipa e diossine. Se nel momento più acuto dell’emergenza il livello di diossina rilevato era significativo e ammontava a 11.9 picogrammi equivalenti per metro cubo (pgeq/m3), i dati sono rientrati nei giorni successivi. “Quando si verifica un incendio, bisogna capire se devono essere messi in campo provvedimenti di ulteriore protezione. Potrebbero essere necessario nel caso di deposizione al suolo di altri inquinanti che, non più per inalazione diretta ma attraverso la catena alimentare, potrebbero essere nocivi”, afferma Sgorbati.

Nel caso di Corteolona, ma anche degli incendi precedenti, i dati raccolti nelle fasi successive non hanno portato a interventi di bonifica del terreno. I livelli di diossina sono rientrati sotto la soglia minima, ovvero sotto 0.25 picogrammi equivalenti per metro cubo. Non è stabilito un limite di legge per furani e diossine ma l’Oms, l’Organizzazione mondiale per la sanità, indica in 0.3 picogrammi il valore sopra il quale si è in presenza di una sorgente stabile che merita di essere monitorata nel tempo.

 

“In Lombardia il dato più drammatico sull’inquinamento riguarda l’aria”, dichiara Barbara Meggetto, presidente di Legambiente. Il 2017 è stato l’annus horribilis: rispetto al 2016 si è registrato un peggioramento dei dati sulla qualità atmosferica. In tutti i capoluoghi, eccetto Monza, le concentrazioni medie di PM10 sono cresciute a causa della diminuzione delle piogge e dell’aumento del traffico dei mezzi di trasporto. “Alla situazione contribuiscono anche gli incendi di alcune imprese dedicate allo stoccaggio di rifiuti. Tutto quello che entra in atmosfera produce un danno. Certo, sono tante componenti con caratteristiche diverse ma, per risolvere il problema dell’inquinamento, è necessario agire su ciascuna area”, prosegue.

Anche Legambiente non nasconde la preoccupazione per gli incendi in regione. “La filiera dei rifiuti dà luogo a fenomeni illegali da sempre. Uno strumento di prevenzione potrebbe essere una strategia regionale, che pianifichi gli impianti e conosca quanto serve al proprio territorio per gestire gli rsu e i rifiuti speciali. E servono più monitoraggi”, continua.

Una priorità, lo smaltimento delle plastiche. “Il recupero dei polimeri non deve essere di secondaria importanza, soprattutto da quando la Cina ha chiuso le importazioni delle plasmix, un insieme di plastiche meno nobili rispetto a quelle solitamente raccolte”, afferma Meggetto. Che la Cina avrebbe detto no alle importazioni, si sapeva già dall’estate 2017, quando il governo di Pechino aveva annunciato alla Omc-Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che dal gennaio 2018 avrebbe vietato l’importazione di 24 tipologie di materiali da riciclare tra cui la plastica. È la campagna contro la “yang laji”, la spazzatura straniera: secondo i dati dell’Onu, solo nel 2016 i produttori cinesi e di Hong Kong avevano importato dai paesi industrializzati – tra cui Europa, Usa e Giappone – 7,3 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, pari al 70% dei rifiuti plastici raccolti e selezionati.

“Nel caso degli incendi, è singolare che prendano fuoco gli stoccaggi di materiale da raccolta differenziata, con materiali diversi ma plastica e pneumatici sembrano una costante. C’è qualcosa che va indagato ed espulso, altrimenti si corrompe anche il ciclo virtuoso”,  conclude Meggetto.

“C’è qualcosa che va indagato e espluso, altrimenti si corrompe anche il ciclo virtuoso”

Barbara Meggetto

Legambiente Lombardia

Proteste e Mamme Volanti

Raffaella Guglielmann coordina Libera Pavia. Il presidio è stato aperto nell’ottobre 2012 e organizza attività sul territorio. “Ci occupiamo di percorsi di educazione alla legalità nelle scuole. Cerchiamo di coinvolgere i giovani sul tema delle mafie al Nord”, spiega. Un percorso non facile perché, racconta, “ancora non si ammette del tutto che le organizzazioni mafiose siano radicate anche qui”. 

All’incontro La Terra dei Fuochi del Nord organizzato per parlare degli incendi nel pavese non hanno aderito in molti. La sala è piena ma non troppo se paragonata al numero di cittadini che ha scelto di non partecipare. Quando sono scoppiati gli incendi, la reazione dal basso non è stata immediata. “È una zona difficile da coinvolgere. E anche in quel caso, la reazione è stata debole”, prosegue Guglielmann. “Gli incontri che organizziamo servono proprio a questo: a smuovere le coscienze, a sensibilizzare la cittadinanza”. +

Con le scuole, e più piccoli, ci lavora anche Raffaella Giubellini. “La nostra generazione si è quasi assuefatta allo stato delle cose e non pensa a cambiare. Invece per le nuove è diverso, lo vediamo già con i nostri figli”.

Raffaella fa parte delle Mamme di Castenedolo, un comitato nato nel 2010 nel piccolo comune in provincia di Brescia. Il gruppo è conosciuto come quello delle Mamme Volanti perché, per fare vedere la condizione in cui si trova la terra in cui vivono, l’hanno osservata dall’alto. Grazie all’aiuto di un amico, sono salite su un aeroplano e sono volate sopra discariche, cave, cumuli di rifiuti. Poi hanno montato i filmati e li hanno fatti girare in rete. “Vista così la provincia di Brescia sembra una terra dei buchi. È una ferita aperta”, racconta.

Le Mamme fanno parte del gruppo Basta Veleni, un tavolo di lavoro che mette insieme associazioni e comitati del territorio. “Abbiamo capito che dovevamo unire le nostre forze, per fortuna in provincia sono in molti a pensarla così”, continua Raffaella. Ora chiedono una moratoria che fermi l’apertura di nuovi impianti e una mappatura di tutte le criticità della provincia, comprese le discariche fantasma. “Fantasma perché fino a quando la normativa sui rifiuti non è cambiata, alla fine degli anni Novanta, lo smaltimento dei materiali aveva poche limitazioni”, spiega.

E una mappatura già è possibile farla: in provincia di Brescia si contano 31 discariche attive per rifiuti speciali, su un totale di 665 impianti. Sono montagnole coperte d’erba o da teli verdastri. “A guardarle dall’alto si scambiano per colline verdi”, continua Raffaella. “Ma non lo sono, sono siti colmi”.

Solo nella frazione di Vighizzolo di Montichiari, a sud-est di Brescia, ci sono 21 discariche. Cinque impianti sono attivi, cinque sono dismessi e undici sono vecchi siti illegali. In pochi chilometri quadrati, si smaltiscono rifiuti speciali e non: scarti industriali, lastre di eternit, ceneri e fanghi di depurazione. Come le due discariche della Valseco, di cui una in attività e con rifiuti tossico nocivi. Il buco della Ecoeternit e affianco la Gedit, tutte e due ancora attive. E la Edilquattro del gruppo Bernardelli. Perché così tante discariche? Per l’elevata concentrazione di cave. La terra vicino Brescia è ricca di ghiaia e sabbia e ha una falda acquifera profonda, elementi che la rendono particolarmente adatta all’attività di escavazione.

In provincia di Brescia si contano 31 discariche attive per rifiuti speciali

Basta scavare e si trovano materiali utili per l’edilizia. Ma quando si finisce, rimane il buco. Le cave dovrebbero essere sistemate per legge, ricoperte di terra e piantumate con nuova vegetazione, ma nella realtà non succede e finiscono per essere riempite di rifiuti. Se all’inizio si procedeva in modo incontrollato, a partire dagli anni Ottanta sono necessarie le autorizzazioni. Il percorso non è complesso: si chiede il permesso per la cava e poi in regione quello di fare una discarica. Un affare redditizio: chi a Brescia aveva una cava si è arricchito.

“Prima questa era una terra coltivata a grano, poi sono venute le cave. Quando la ghiaia è stata presa e rimane solo la forma del buco, gli imprenditori chiedono di riempirla con i rifiuti”, spiega Luigi Gherlegni, che a Montichiari ci vive e fa parte del gruppo Basta Veleni. Succede anche che a volte i rifiuti a volte prendano fuoco: il 24 maggio 2017 nella Faeco di Bedizzole un bacino contenente la parte non metallica della macchine rottamate si è incendiato. Per autocombustione, secondo le prime notizie.

“Le discariche hanno una storia, come la vita delle persone”, dice Luigi. “Alla morte corrisponde una cava trasformata in una discarica. Quello che ora aspettiamo sono le bonifiche”. Raffaella è d’accordo: “Siamo certi che possa esistere un altro modo di vivere queste terre”.