Racconti a distanza

Tre storie di partenze e ritorni, difficoltà e soddisfazioni
Narrate da chi è rimasto qui e li aspetta a casa

Racconti a distanza

Nov 6, 2018

di Valerio Berra e Ambra Orengo

Partire. Per inseguire un sogno, per mancanza di alternative, per provare e vedere come va. La voglia di tornare, se le condizioni lo permettono, se non è una scelta obbligata. E il domani, spesso, non si può scegliere.

Oggi i giovani partono e tornano per mille motivi. Alle spalle, percorsi di studio, esperienze e tentativi di realizzarsi. Di fronte, la scaletta di un aereo e l’incertezza di sapere se andrà bene oppure no. Sono tutte storie. Diverse e affini per molti aspetti, ma sempre uniche perchè unici sono i loro protagonisti. 

Scegliamone tre, senza particolare selezione, se non la scoperta di percorsi differenti, ostacoli diversi, da affrontare in Italia e all’estero, ma una stessa spinta iniziale. E chiediamo a chi gli è più vicino, a chi li ha visti partire e li aspetta a casa, di raccontarci chi sono. Tre esempi per una sola frase in comune: «Si parte!»

 

I passi di Micol

L’ultima volta che è tornata in Italia è stata durante le vacanze per l’Eid, la fine del Ramadan. In Giordania è festa nazionale e tutte le attività sono sospese. Ne ha approfittato per tornare a trovare parenti e amici a Milano, la sua città natale. Da due anni, Micol Ceserani vive e lavora a oltre 3mila chilometri di distanza. Ad Amman, la capitale giordana, dove fa l’operatrice umanitaria per l’Ong Terre des hommes Italia che si occupa dei diritti dei bambini in diversi contesti del mondo..

La ragazza con la valigia
Dopo un periodo negli Usa e un’esperienza di volontariato in Kenya, Micol si è laureata con il massimo dei voti in Relazioni Internazionali all’università di Pavia. Nel mezzo, ha passato sei mesi a San Francisco per dare alcuni esami. Quando è tornata, ha rifatto subito le valige. «In quel periodo le faceva molto spesso. Arrivava con questi carichi da varie parti del mondo e dopo poco ripartiva portandosi via tutto», Michaela Riva è una mamma orgogliosa quando parla di lei. La sua bambina che due anni fa, a 25 anni, ha vinto una borsa di studio per uno stage all’estero. Destinazione: Amman.

La salita iniziale
L’inizio della carriera di Micol non è stato dei più semplici. «È stato difficile sia da un punto di vista economico che di contratto», spiega la mamma. «Aveva solo un rimborso spese per potersi mantenere e in più, nonostante avesse molte responsabilità e un ruolo estremamente operativo, non aveva nessuna certezza, né riconoscimento. È stato difficile per lei accettare che, dopo tutto quello che aveva studiato e l’esperienza che si stava facendo, non venisse ufficializzata la sua posizione». Ma il lavoro non è stato l’unico ostacolo da superare.

Niente baci né capelli bagnati
«Nonostante sia abituata a viaggiare, ad adattarsi e sia molto sensibile a non urtare la cultura e le usanze del luogo, non è stato semplice integrarsi». Michaela lo spiega con un esempio: «Lei era abituata a non asciugarsi i capelli, a uscire di casa dopo la doccia con i capelli bagnati. Questo è inaccettabile per la cultura locale, è un’offesa alle loro tradizioni». E con il suo compagno, che vive e lavora con lei ad Amman, niente abbracci né effusioni per strada o nei luoghi pubblici. Una questione di adattamento, che ha richiesto tempo e impegno e che tuttora rappresenta una sfida.

Un desiderio nel cassetto
Con il tempo però le cose sono migliorate, anche dal punto di vista lavorativo. Oggi Micol è area manager e gestisce un progetto nel settore educativo che, tra le altre cose, mira all’inserimento scolastico dei bambini siriani rifugiati. Ha un ottimo stipendio e vive con il compagno una quotidianità costruita nel Paese che – per ora – li ospita. Per ora. Perché, come dice la mamma, «lei vorrebbe tornare in Italia per tantissimi motivi. Innanzitutto per stare vicino ai suoi affetti. Ma non le è possibile: non solo non avrebbe un riconoscimento economico che le permetta di rendersi indipendente come ora. Ma non avrebbe nemmeno la stessa possibilità di far carriera, di avere compiti e responsabilità come quelli che gestisce al momento».

I progetti di Simone

Il timbro dell’ambasciata affonda nel tappetino imbevuto di inchiostro. Si abbassa sul foglio del visto lavorativo e imprime con un blu scuro una sola parola: «Accepted», accettato.
Basterebbe questo a Simone Ferrari, classe 1993, per raggiungere il suo obiettivo. Andare a vivere e lavorare in Canda. Simone un lavoro lo ha già, o meglio, ha già un azienda che è pronto ad assumerlo. Quello che manca è la burocrazia. In Canada non c’è un muro di cemento armato, come quello che taglia la frontiera di Messico e Stati Uniti, ma a preoccupare chi vuole trasferirsi lì basta un muro di scartoffie e carte bollate.

Due lauree e un diploma
Simone vive a Bollate, provincia di Milano. Si è laureato in storia. Una laurea “triennale”. Ma non nel suo caso. A lui sono bastati due anni per completare gli esami e scrivere la tesi. Mentre studia per concludere anche la laurea magistrale inizia a lavorare nella scuola guida dello zio e diventa istruttore. Due lauree e un diploma professionale. Ma il lavoro non arriva. Ci sono i contratti provvisori, il precariato, ma non il lavoro fisso, quello che ti permette di costruire qualcosa per il futuro.

Non il sogno americano ma il risveglio canadese
Due settimane di vacanza vicino a Toronto, ospitato da alcuni parenti, sono sufficienti per innamorarsi del Canada. Simone parte nell’agosto del 2017. «Gli è piaciuto subito. Quando lo sentivo mi raccontava di città in espansione e campagne dove passare il weekend», racconta Fabio Mambretti, suo amico di vecchia data. Tre mesi dopo è di nuovo lì, questa volta per restarci. Ottiene i primi colloqui di lavoro ma non vanno per il verso giusto. I «forse» si trasformano in «maybe» ma i «no» restano «no». Finché arriva l’occasione giusta. Un’azienda che produce camion gli propone di occuparsi del servizio clienti. Simone accetta, ma per iniziare a lavorare servono i permessi.

Appesi a un filo d’inchiostro
Serve che l’ufficio immigrazione approvi il visto lavorativo e per farlo bisogna avere un’azienda che garantisca l’assunzione. Trovarla non è facile e una volta iniziata la procedura bisogna tornare nel proprio Paese Natale. Quanto? Non viene mai stabilita una data di scadenza. A volte bastano tre mesi, altre volte ne servono sei. Un limbo, soprattutto perché in questo periodo bisogna accontentarsi di quello che si trova. I genitori di Simone nel frattempo si sono trasferiti a Perugia. Lui invece è a Milano, ad aspettare che qualcuno in un ufficio dall’altra parte dell’oceano metta un timbro su una carta.

I disegni di Riccardo

«Inizialmente mio fratello doveva restare a Londra solo un anno, per frequentare un Master. Invece è lì da cinque anni, si è sposato e ha aperto una onlus tutta sua». Edoardo Conti racconta come la vita di sua fratello maggiore, Riccardo, abbia preso direzioni impreviste.

Per seguire un sogno
Laureato in Architettura al Politecnico di Milano, Riccardo ha sempre saputo che il lavoro in ufficio non faceva per lui. «Ha lavorato in alcuni studi di architettura ma faceva fatica a sedersi a un tavolo e fare i progetti», spiega Edoardo. «Lui voleva che il suo studio fosse applicato all’architettura nei paesi in via di sviluppo». Il sogno di Riccardo è quello di utilizzare le proprie competenze e intuizioni per realizzare qualcosa per chi ha di meno. L’unico corso che corrispondesse alle sue aspirazioni però, l’ha trovato alla UCL, università di Londra.

Dalle difficoltà di trovare lavoro alla nascita di Catalytic Action
«Appena ha finito il Master ha cercato lavoro. Ha fatto molti colloqui ma è un settore difficile, non sono andati bene». Edoardo racconta dei primi tempi di suo fratello a Londra e dell’incontro che gli ha cambiato la vita: quello con la sua attuale moglie, Joana. «Insieme hanno deciso di dare vita a questa Ong». Catalytic Action mette in pratica il sogno di Riccardo: applicare le conoscenze di architettura nei paesi in via di sviluppo. Promuovendo i valori che, per i suoi fondatori, sono importanti. Un esempio? «Lavorano solo con operai in loco, per trasmettere conoscenza e lasciare non solamente edifici», spiega Edoardo. Lui stesso l’anno scorso ha partecipato a un progetto del fratello, in Libano: «Io e lui ci siamo sempre trovati in sintonia a livello politico ed etico. Credo nelle stesse cose in cui crede lui e quindi mi ha fatto piacere partecipare».

Il futuro è ancora da scrivere
Londra o l’Italia, la sua Ong o altro. Edoardo sa che il futuro di suo fratello Riccardo non è ancora definito. Dovrà andare dove ci saranno più possibilità. Ora, ad esempio, «si è reso conto che rimanere del tutto autonomi non è semplice. Soprattutto da un punto di vista economico», dice Edoardo. «Per questo ha fatto dei colloqui con grandi Ong – Save The Children ad esempio – che subappaltano progetti a Ong minori, nella speranza di ricevere dei lavori». Una scelta difficile, quella di lavorare nel no profit e per di più con un’organizzazione tutta sua. Ma Riccardo ha scelto di rischiare ed Edoardo è fiero del coraggio di suo fratello.